Chiesa

BOEMIA. Preghiera, un seme nella terra più atea

Marina Corradi mercoledì 22 dicembre 2010
Da Praga sono settanta chilometri di strade sempre più deserte. Colline e pascoli, e rari villaggi silenziosi. Pioviggina e c’è nebbia. Boemia, nel cuore dell’antica Europa austroungarica una terra che sembra abbandonata. Qui e là solitari campanili. La regione più secolarizzata d’Europa, dove il 60% della popolazione si dichiara atea. Finalmente un cartello: "Trapistkycký klàster". Nel fondo di una vallata, bianco, tutto nuovo, ecco il monastero. È una fondazione delle trappiste di Vitorchiano, dedicata a Nostra Signora della Moldava, il grande fiume che scorre poco lontano. Sono arrivate in 9 dall’Italia, nel 2007. Oggi sono già in 19: tutte vocazioni di giovani ceche, ragazze cresciute nella ex Cecoslovacchia comunista. Guardi dall’alto, con stupore, fra i boschi e la nebbia, il cantiere ancora aperto. Che cosa strana: come un seme, gettato nel fondo di questa terra dimenticata.Alle tre del pomeriggio le suore recitano Nona nella cappella non del tutto compiuta, tra la calce e le cazzuole dei muratori. Bianche nel coro di legno scuro, cantano. Hanno voci belle che echeggiano fra le pareti spoglie; l’armonia ti colpisce. Dopo chilometri di villaggi senza nessuno, la bellezza di questo canto nel silenzio della Boemia commuove.La superiora, madre Lucia Tartara, 55 anni, è di Adria, provincia di Rovigo. «A Vitorchiano avevamo tra noi alcune sorelle ceche. Il cardinale Vlk, allora arcivescovo di Praga, venne a trovarci. Espresse il desiderio di una fondazione in Boemia. Noi eravamo più di 80, era tempo per una nuova fondazione. Ma occorreva un terreno, occorrevano soldi e non avevamo niente. Abbiamo trovato questi 40 ettari in una zona che sembra avere sotto di sé la storia di questa terra: sulle rocce qui attorno ci sono ancora incisi i simboli degli hussiti, che su questo terreno hanno combattuto contro i cattolici, e proprio qui dove siamo c’era un campo nazista, durante la guerra. Appena arrivate, quando ancora non c’era nulla, abbiamo celebrato la prima Messa nei campi. Non c’era l’acqua: abbiamo dovuto costruire l’acquedotto, e combattere con la burocrazia per mille permessi. Il cardinale Vlk è venuto a benedire il cantiere. Infine, siamo arrivate un giorno in auto da Vitorchiano, dietro di noi un camion carico di materassi. Era il 23 aprile 2007 quando abbiamo dormito nella foresteria per la prima volta; e pensavamo, tra questi boschi, senza neanche una inferriata alle finestre, di avere paura. Invece no. Io mi sentivo custodita dal tabernacolo col Santissimo che ci eravamo portate dall’Italia – è Lui il padrone di casa, qui».La sera scende sul monastero e lo avvolge in una nebbia più fitta. Poi solo l’abbaiare di un cane nella notte, fino al primo tocco della campana. È ancora buio alle 4 e 15. Le monache nella cappella recitano il Mattutino. Le guardi: in quante sono giovani sotto al velo. Marketa, una postulante ancora senza abito, ha due trecce castane che la fanno sembrare una bambina. Se ne escono silenziose in fila verso il refettorio. Ora et labora: i monasteri benedettini devono mantenersi. C’è l’orto, si dipingono icone, e si sta costruendo una cioccolateria. Il lavoro cadenzato dalla preghiera, a ore fisse – come scandito da un altro orologio.All’apparenza, un monastero di clausura qui è un’isola nel deserto. Eppure no. Madre Lucia racconta come nelle domeniche d’estate i boemi che vanno a fare il bagno nella Moldava, incuriositi dalla scritta "Trapistky klaster", vengano a bussare. «Ci domandano: che cosa fate qui? Allora li invitiamo ad assistere a Nona o ai Vespri. Restano ad ascoltare, e alla fine ci dicono meravigliati: come sono belli i vostri canti, e le parole che cantate! Ma che cosa sono? Non le abbiamo mai sentite».Una giornalista locale è venuta a vedere. Poi ha scritto: «Le trappiste sono venute in Boemia a offrirci la bellezza». «È la bellezza che colpisce, che suscita meraviglia», dice madre Lucia. Ma tu hai in mente le periferie di Praga, a un’ora da qui, i palazzi scrostati lasciati dal socialismo reale tra i quali incontri vecchi soli e muti. Che senso ha un monastero trappista qui, e come può incidere in questa terra scristianizzata?«Noi – risponde la superiora – dedicandoci a una vita di preghiera nel silenzio, siamo una realtà missionaria. Ci si può chiedere in che modo. È semplice: la più grande delle sofferenze degli uomini è la mancanza di senso della vita e della morte. Solo in Dio l’uomo trova il senso della propria vita. Lo scopo del nostro essere qui è ottenere da Dio per tutti la grazia delle grazie: l’incontro con Cristo. Il nostro fisico essere qui è partecipazione anche concreta, carnale, al desiderio profondo degli uomini di questa terra. Non solo preghiera, ma offerta di ogni istante della nostra vita a Cristo. Noi crediamo nella comunione di tutti gli esseri umani tra loro; la nostra appartenenza a Cristo non è solo per noi ma è collaborazione con la Sua Opera, per amore degli altri, che sono "fuori", nel mondo».Fuori: in questi villaggi abbandonati, dove sono rimasti i più vecchi; dove i giovani non sanno più come si fa il segno della croce. Che cosa strana, però. Strano che un giorno in mezzo a questi campi vergini sia stata celebrata su due assi di legno una Messa, davanti a un grappolo di uomini e donne venuti da lontano. «È stato tutto un miracolo – dice pensosa la superiora – un miracolo trovare i fondi, e fare l’acquedotto, e poi, quando siamo arrivate, ricevere da gente mai vista, in regalo, i mobili di cui avevamo bisogno. L’impiegato dell’ufficio che ci assillava con le complicazioni burocratiche una mattina ce lo siamo ritrovato qui, tra i volontari venuti a piantare i pali nel frutteto. Un miracolo tutte queste vocazioni: in due anni abbiamo accolto dieci giovani donne ceche».Un miracolo? Comunque, qualcosa di non tanto diverso da quella delle fondazioni cistercensi che molti secoli fa sorgevano in Europa, in terre imbarbarite, e ricominciavano la storia cristiana. Nella bella chiesa dal tetto di legno – dal basso, sembra un’arca alla rovescia – le monache cantano i Vespri alle cinque del pomeriggio. È buio fuori ormai; gli operai del cantiere hanno finito il turno. Due di loro, le mani ancora sporche, si affacciano alla chiesa. Rispettosamente si tolgono gli scarponi infangati ed entrano, muti, scalzi. Tendono il collo a guardare verso il coro: chi canta così, sembrano chiedersi, e perché? Strano, che dei manovali stanchi tardino a tornare a casa, la sera, per ascoltare uno sconosciuto canto. Eppure, quei due rimangono fino alla fine, come sedotti da una bellezza. Il seme piantato nel fondo della Boemia, non visto, germina sotto la prima neve del Natale 2010.