IL MINISTRO BHATTI, MORIRE PER DIFENDERE DIRITTI ESSENZIALI«Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù». Così scriveva in quello che sarebbe diventato il suo testamento spirituale Shahbaz Bhatti, laico cattolico, ministro per le minoranze nel governo del Pakistan, ucciso appena tre settimane fa per il suo impegno per la liberazione di Asia Bibi e l’abolizione della legge antiblasfemia. Una voce - la sua - che ci aiuta a rivolgere lo sguardo anche al martirio dei cristiani dell’Asia in questa giornata in cui mettiamo al centro la memoria di coloro che hanno donato la vita per il Vangelo. Citare oggi Bhatti, però, credo sia soprattutto un modo per ricordare che il martirio è testimonianza della parola di Gesù, anche in un contesto come quello del Pakistan dove i cristiani rischiano la vita semplicemente per la salvaguardia dei loro diritti essenziali. «Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo – scriveva ancora Bhatti proprio in quel testo –. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora in questo mio sforzo per aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan, Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Gesù e per lui voglio morire».Non si può capire davvero il martirio dei cristiani dell’Asia - piccolissimo gregge quasi dappertutto - senza guardare alla forza evangelizzatrice di questo dono. Vale oggi per il Pakistan, ma ad esempio è quanto sta testimoniando da tempo anche la Chiesa dell’India, colpita altrettanto gravemente dal fondamentalismo indù. Ricordo in Orissa - lo Stato nel 2008 epicentro delle violenze più gravi degli ultimi anni - di aver chiesto a un giovane seminarista che senso avesse prepararsi a diventare sacerdote in un contesto dove può capitare che i preti vengano arsi vivi. Questo adolescente mi rispose: «C’è scritto nel Vangelo, amate i vostri nemici e pregate per coloro che vi perseguitano». Non a caso il 24 marzo quest’anno verrà celebrato anche a New Delhi: un incontro e una Messa per il trentunesimo anniversario dell’uccisione dell’arcivescovo Romero sono stati infatti organizzati dalla Commissione giustizia e pace della Conferenza episcopale e dall’ambasciata del Salvador e si terranno nella Cattedrale del Sacro Cuore. Un modo - come si legge nell’invito - per gettare un ponte all’insegna dell’unico servizio al mondo intero che è la missione della Chiesa.Soprattutto in Asia, però, il martirio dei cristiani ha anche una dimensione ecumenica: quando si è pochi diventa più facile superare le divisioni. E allora credo valga la pena ricordare in questa giornata anche una terzo volto del martirio asiatico, quello di Lashanta Wickramatunga, un giornalista cristiano pentecostale ucciso nello Sri Lanka nel gennaio 2009. Lui cingalese denunciava sul suo giornale i massacri compiuti dall’esercito ai danni della popolazione tamil. «La gente spesso mi chiede perché mi assuma questi rischi e mi dice che è solo questione di tempo e verrò ammazzato – scriveva nel suo ultimo editoriale –. Ovviamente lo so: è inevitabile. Ma se non parliamo ad alta voce ora, non rimarrà nessuno in grado di parlare per coloro che non possono. Quanto a me Dio solo sa che ci ho provato».
Giorgio BernardelliTURCHIA, RESISTERE RICORDANDO PADOVESE E SANTOROAnche per la Turchia il 24 marzo è la giornata del ricordo e del dolore, unito alla speranza. Oggi infatti nel sud est del Paese della Mezzaluna si terrà una preghiera per ricordare il sacrificio di monsignor Luigi Padovese, vicario apostolico dell’Anatolia, ucciso barbaramente il 3 giugno dell’anno scorso da Murat Altun, 26 anni, da cinque al servizio del vicariato e trattato da Padovese come un figlio. La commemorazione è investita di un valore speciale. La preghiera e la Messa successiva infatti saranno officiate dall’amministratore apostolico del vicariato, l’arcivescovo di Smirne, Ruggiero Franceschini, che domani celebrerà, sempre nel sud-est del Paese la Messa per l’Assunzione della Vergine. La comunità sta cercando di lasciarsi alle spalle il trauma provocato dalla perdita di due uomini di fede come don Andrea Santoro, ucciso da Trebisonda il 5 febbraio 2006 e monsignor Padovese, uomo di cultura eccelsa e del dialogo fra religioni diverse, considerato da tutti, anche dal governo islamico-moderato, un interlocutore autorevole. Purtroppo, oltre al ricordo per questi due tragici fatti, il 2011 per i cristiani in Turchia si è aperto con qualche preoccupazione. La sera di Capodanno infatti un gruppo di 5 ragazzi si è diretto verso la chiesa di Santa Maria a Trebisonda, quella in cui don Andrea Santoro svolgeva la sua missione pastorale. Hanno urlato motti come «Trebisonda è turca e resterà turca» e successivamente hanno tirato una molotov contro le mura dell’edificio religioso. Non solo. Gli inquirenti sul posto hanno anche trovato un cartello inquietante con scritto «Se non togliete la croce dall’alto lo facciamo noi». La polizia di Trebisonda ha fatto aumentare il numero di telecamere che controllano da zona dai tempi dell’assassinio di don Santoro e che non sono riuscite a identificare gli autori del gesto. Le forze dell’ordine hanno, però, fermato alcuni pregiudicati e stanno indagando per capire chi si debba riferire il gesto, se a un gruppo terrorista organizzato o micro criminali sciolti.A inizio marzo poi, a Istanbul, due giovani sono stati arrestati dalla polizia con l’accusa di star preparando un attentato a una personalità di spicco del mondo cristiano nella megalopoli sul Bosforo. A confermare i dubbi della polizia c’è il fatto che nell’abitazione dove vivevano, a Gazi Osmanpasha, un quartiere operaio, sono state ritrovate anche due pistole, detenute illegalmente. Le attenzioni della comunità cristiana in questo momento sono concentrate sull’esito del processo del killer di monsignor Padovese. La giustizia turca ha assicurato tempi brevi e un procedimento penale chiaro. Ma sulle udienze che non sono ancora iniziate, pesa il dubbio che l’assassino stia cercando di ottenere l’infermità mentale, che gli impedirebbe non solo di andare in galera, ma anche di confessare perché e per conto di chi abbia ucciso l’uomo di fede.
Marta Ottaviani