Chiesa

Il ricordo. Così il cardinale Siri scriveva ai “suoi” preti

Filippo Rizzi mercoledì 21 agosto 2024

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Un padre spirituale per la sua Chiesa particolare da lui guidata per oltre 40 anni (1946-1987): Genova. Ma anche un pastore in ascolto di tutte le sue pecore, anche quelle più distanti dalla fede vissuta e praticata attraverso i Sacramenti della Penitenza e della Eucaristia. Ma anche un figlio fiero della Chiesa genovese in cui era nata la sua vocazione al sacerdozio e alla vita apostolica. Spesa per gli altri: in particolare i preti giovani «spesso in crisi vocazionale anche per situazioni moralmente delicate» e quelli anziani e malati. È quanto è stato nella sua lunga vita il cardinale Giuseppe Siri (1906-1989).

E un libro appena uscito per Cantagalli (pagine 256, euro 18) Paternità spirituale del cardinale Giuseppe Siri Lettere personali ai suoi sacerdoti (1946-1987) racconta molto di questo porporato che fu tra l’altro anche presidente della Conferenza episcopale italiana (1959-1965). Il volume è curato da don Giulio Venturini che fu uno stretto collaboratore dell’arcivescovo di Genova. Il testo raccoglie le tante lettere che il presule inviò ai suoi preti durante il suo lungo episcopato.

A colpire è certamente la «paternità spirituale» e lo stile amicale e sempre diretto con cui Siri era abituato ad indirizzare i suoi scritti ai suoi presbiteri (che andavano da don Gianni Baget Bozzo a don Andrea Gallo). Tante sono le note personali con cui il cardinale si rivolge ai suoi «don» di cui ricorda le virtù, i limiti e le grandezze. La maggioranza di queste missive (molte delle quali sono inviate anche ai religiosi, allora numerosissimi nella sua diocesi) si concludono con queste parole: «Fatti vedere e scrivi». Ed è lo stesso successore sulla Cattedra di San Siro l’arcivescovo di Genova il francescano conventuale Marco Tasca – che firma la prefazione a questo significativo volume – a mostrare uno dei tratti più distintivi del suo predecessore: quello di «essere stato pastore e padre» nel solco della Tradizione ma anche del Concilio Vaticano II.

A impreziosire la pubblicazione è la testimonianza del suo ultimo segretario ed esecutore testamentario monsignor Mario Grone. Che in queste pagine, pubblicate ora esattamente a 35 anni dalla scomparsa di Siri, avvenuta il 2 maggio 1989, ricorda un aspetto particolare del suo antico superiore. Eccolo: «I testi che compongono questo libro rivelano la premura del vescovo per i suoi preti, la sua delicatezza, la sua paternità, la sua profonda conoscenza delle anime e delle situazioni».

Dentro queste pagine emerge lo zelo pastorale di Siri, la sua attenzione alle situazioni particolarmente delicate (tra cui le parrocchie che vivevano gravi dissesti economici), il rispetto della disciplina, il primato della carità e dello studio (lui che di formazione è un teologo dogmatico) che devono avere i «suoi» preti. Come degni di nota sono i ricordi del Seminario del cardinale, la sua ammirazione per uno dei suoi rettori, monsignor Amedeo Lercaro (il fratello del futuro cardinale di Bologna Giacomo). O ancora il debito che Siri nutre verso i suoi predecessori per come gli hanno insegnato a fare il prete tra i caruggi della sua Genova e poi il vescovo ausiliare: il gesuita piemontese Pietro Boetto e Carlo Dalmazio Minoretti.

Dal libro risalta una frase che Siri ripeteva sovente a chi lo incontrava o lo cercava: «Il mio clero è buono e ubbidiente». O, ancora, si scopre quanto il cardinale Siri tenesse che i suoi preti nelle maggiori solennità liturgiche dell’anno consumassero un pasto fatto «di buon cibo» con il loro arcivescovo per evitare che «vivessero troppo in solitudine» il loro ministero. Tra gli aspetti singolari di questo saggio vi sono i moniti del cardinale ai suoi curati – che assomiglia molto ai richiami attuali del magistero ordinario di papa Francesco – la lotta al chiacchiericcio e il rispetto di ogni persona che si accosta a un luogo di culto. Ma in queste pagine c’è molto di più: emerge un Siri che non dimentica mai il suo protettore san Giuseppe, la Madonna o il fatto che si sente figlio della spiritualità benedettina di cui è un oblato. La parte finale di questo libro ripropone l’indimenticabile testamento spirituale del porporato in cui chiede «perdono» a tutti.

O ancora affiora da una delle lettere la confidenza che rivolge a don Angelo Bagnasco futuro arcivescovo di Genova: «È meglio essere qualche volta stupidi che abitualmente ingiusti». O ancora ecco un altro suggerimento che indirizza a un suo prete: «Il giudicare male è l’ultima cosa da fare nella vita». Un libro, dunque, che ci aiuta a scoprire un pastore che ha speso tutta la vita e le forze migliori, quelle interiori, per la sua Sposa: «l’amata Chiesa di Genova».

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