Amazzonia. Sinodo, uno sguardo profetico. Il celibato non frena le vocazioni
L'uscita dei delegati dall'Aula Paolo VI (Siciliani)
“Quando i miei nonni erano bambini, noi Harakbut eravamo 50mila. Ora siamo meno di mille. Sono stati i “caucheros” – imprenditori del caucciù – a sterminarci perché ci rifiutavamo di farci schiavizzare”. Gli occhi di Yesica Patiachi si riempiono di lacrime mentre racconta la storia tragica del suo popolo ai giornalisti riuniti nella Sala stampa vaticana per il consueto appuntamento informativo. “Poi è arrivato Apaktone. Il suo nome era, in realtà, padre José Alvarez, missionario domenicano. Ma noi lo chiamavamo “Apaktone”, “Papà saggio”. Se non fosse stato per lui e il suo impegno nella difesa degli Harakbut, io non sarei qui”, ha proseguito la giovane insegnante di Madre de Dios, in Perù, la stessa che, a nome dei popoli indigeni, fece il discorso di benvenuto a papa Francesco, il 19 gennaio 2018.
Una vicenda, quella di Apaktone e degli Harakbut che ben descrive come il profetismo abbia segnato la Chiesa amazzonica fin dalle origini. “Sono testimonianze come quella di Yesica uno dei momenti più toccanti del Sinodo”, ha sottolineato monsignor Ambrogio Spreafico, vescovo di Frosinone-Veroli-Ferentino.
Giunta alla metà dei lavori – ieri sono terminate le Congregazioni generali e, fino a domani, si svolgono i Circoli minori - l’Assemblea si trova in un momento cruciale: quello di dare spazio allo slancio profetico e apostolico per non restare intrappolati nei conflitti singoli o – per impiegare una metafora amazzonica – guardare l’albero e non il ramo.
“Soprattutto negli interventi liberi di ieri è emersa con forza l’urgenza di non fermarsi alle singole soluzioni, di non perdere lo sguardo generale”, ha detto Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per le comunicazioni. “Si sente la necessità di un salto di qualità. Esso è parte del processo sinodale stesso: quest’ultimo è un percorso di discernimento comunitario non un Parlamento dove si prendono decisioni – ha aggiunto padre Giacomo Costa, segretario della Commissione per la comunicazione -. L’immagine utilizzata in Aula è stata quella biblica del cieco Bartimeo che lascia cadere il mantello per correre incontro a Gesù. Egli rappresenta l’esigenza di spogliarsi delle proprie sicurezze, convinzioni, piccole soluzioni che si vorrebbe inserire nel documento finale per farsi provocare, inquietare e guidare dallo Spirito. E’ un processo simile a quello descritto nell’Evangelii Gaudium a proposito dell’unità superiore al conflitto”.
“Il Sinodo è un ambiente di dialogo. Ci sono opinioni differenti. Per questo, molti confondono lo scambio con lo scontro. In realtà, non è così, nemmeno sulle questioni più spinose”, ha affermato monsignor Wellington Tadeu de Queiroz Vieira, vescovo della diocesi brasiliana di Cristalandia. Il quale, a proposito di una delle questioni più mediatiche – quella dei viri probati – ha detto: «Non credo che sia il celibato ad ostacolare le vocazioni, bensì la poca santità di noi sacerdoti».
Padre José Conti, vescovo di Macapa, sempre in Brasile, ha voluto sottolineare e rendere grazie per il vitale contributo dei laici alla Chiesa amazzonica. «Nella mia diocesi ho cento comunità e un solo sacerdote, che riesce a visitarle, al massimo, due volta all’anno. Sono i laici a tenere viva la Chiesa, soprattutto le donne».
Questo fine settimana, dopo che i Circoli minori avranno condiviso con l’Assemblea le rispettive relazioni, inizieranno la stesura del documento finale.