Il dibattito. Monarchia o democrazia? La "terza via" del potere nella Chiesa
I lavori della prima Assemblea sinodale nella Basilica di San Paolo fuori le Mura a Roma
Autorità (del vescovo o del parroco) e sinodalità non è detto che facciano rima. Anzi, spesso vengono viste in conflitto tra loro. Ma è proprio così? Don Matteo Visioli, docente di diritto canonico alla Pontificia Università Gregoriana e al San Pio X di Venezia, propone una lettura diversa e più approfondita della secca alternativa. «Quella della sinodalità è una dimensione attraverso cui il vescovo e il parroco possono esercitare la propria autorità – afferma lo studioso -. Ci possono essere tanti modi per esercitare questa autorità. C’è quello che il Sinodo dei vescovi ha definito “monarchico”, in un certo senso assoluto. E quello che il magistero di Francesco ci sta aiutando a comprendere, e cioè di una modalità di esercizio dell’autorità nella Chiesa portata avanti con stile sinodale».
Don Matteo Visioli - Imago Economica
Tradotto in termini pratici?
Significa che l’autorità resta in capo al vescovo e al parroco, i quali devono prendere le decisioni e devono assumersene la responsabilità ultima. Ma nel fare questo discernimento non sono svincolati dal popolo di Dio loro affidato. Sapendo che il popolo è a sua volta infallibile in credendo, dice la teologia cattolica, cioè che lo Spirito Santo parla al cuore non solo di alcune persone ma di tutti i battezzati. È un cammino ancora lungo, ma i passi compiuti finora sono promettenti.
Qual è il modello a cui riferirsi? Il Papa mi sembra abbia escluso quello delle assemblee parlamentari.
Sì, la sinodalità non è un parlamento, perché la Chiesa non è una democrazia, ma è mistero di comunione e quindi è abitata da altre dinamiche. Ma ciò non esclude, pur non potendo far valere il criterio della maggioranza nel prendere le decisioni, che il popolo di Dio possa essere consultato su alcune delle principali questioni la cui decisione resta in capo al vescovo o al parroco. Di solito le democrazie passano attraverso una fase di elaborazione, poi di votazione e la maggioranza prevale. Il fatto che la Chiesa non sia una democrazia non esclude che chi la governa ai diversi livelli possa chiedere la manifestazione di una volontà ai singoli fedeli che passa anche attraverso un voto, dopo un dibattito e il discernimento necessari. Questo non significa trasformare la Chiesa in una democrazia, ma vuol dire che chi governa necessita di acquisire una volontà anche attraverso lo strumento del voto.
Come intendere questo voto: deliberativo o consultivo?
È certamente consultivo. Io non condivido la tesi di chi lo vorrebbe deliberativo. Propendo maggiormente per una Chiesa che riduca la distanza tra il consultivo e il deliberativo cosicché chi governa, pur chiedendo un consiglio, sia chiamato a non distanziarsi da questo consiglio, soprattutto quando è prevalente, a meno che non vi siano ragioni di coscienza o veramente fondate per cui ci si debba discostare. Il consiglio in questo caso diventa vincolante perché basato sul fatto che il discernimento avviene attraverso tutto il popolo di Dio o una sua parte. E quindi chi ha l’autorità non può “tradire” l’orientamento del popolo di Dio anche se questo orientamento viene espresso attraverso un consiglio e non attraverso una deliberazione. Il mio desiderio sarebbe quello di poter crescere verso una maggiore rilevanza e dignità del consigliare nella Chiesa al punto da ridurre la distanza tra deliberazione e consiglio e quest’ultimo resti vincolante per chi deve decidere.
E nel caso in cui il consiglio vada palesemente contro la dottrina, la tradizione, il magistero?
Allora l’autorità è legittimata a discostarsi dalla maggioranza che si è espressa attraverso il voto. Ma deve rendere ragione del perché in coscienza non può seguire l’orientamento maggioritario del popolo di Dio. Dovrebbero però essere casi estremi.
I lavori della prima Assemblea sinodale nella Basilica di San Paolo fuori le Mura a Roma - Siciliani
Ma alla fine tutto questo gran discorrere di simili temi non è che nasconde, da parte di alcuni laici, la volontà di comandare di più e quindi avere più potere?
Dipende sempre dal valore che diamo alla parola potere. Se è l’esercizio della dignità battesimale posso dire sì: è una questione di potere, ma in senso positivo, cioè di potestà che coinvolge in modo attivo ogni battezzato nella vita della Chiesa anche nel suo momento decisionale. Se invece potere ha un valore negativo, come prevalentemente succede, allora cade tutto questo discorso, poiché non si può comprendere la sinodalità, soprattutto quando viene applicata al processo decisionale, se questa idea di potere in senso negativo in qualche modo la inquina. Il presupposto è l’esercizio di una potestà da parte di ogni fedele, laico o non laico, rispetto al battesimo che vive e che esercita con carismi e ministeri diversi. È vero però che i due concetti di potere spesso vengono confusi e questo può creare degli equivoci.
È corretto affermare che il discorso deve essere ricondotto alla comunione?
Certamente. La sinodalità è un’espressione della comunione ecclesiale, nel senso che la prima si comprende pienamente nella logica della comunione. Al di fuori di questa logica si cade in una questione di esercizio di potere che anziché illuminare può generare frustrazione in chi ha delle aspettative di un certo tipo e poi non le vede realizzate.
© riproduzione riservata