Chiesa

L'anticipazione. Se Cristo tornasse sulla terra noi come lo accoglieremmo?

Enzo Fortunato domenica 24 ottobre 2021

Se Cristo tornasse oggi? È la domanda intorno alla quale si articola il nuovo libro di padre Enzo Fortunato, in uscita domani per le Edizioni San Paolo. Nella sua riflessione l’autore, francescano conventuale, direttore della Sala Stampa del Sacro Convento di Assisi, si confronta con i grandi autori della letteratura, tra cui Tolstoj e Flaiano, Dostoevskij e Michelstaedter, che hanno immaginato il ritorno del Signore sulla terra. Da “E se tornasse Gesù? La domanda al cuore del cristianesimo” (128 pagine, 14 euro) pubblichiamo l’estratto: “La parola, l’ascolto e la preghiera”, che fa parte del I capitolo.


Il volume è anche un viaggio attraverso le parole di alcuni tra i più grandi autori della letteratura. Il confronto con le pagine di chi, come Dostoevskij, Tolstoj e Flaiano, ha immaginato il ritorno del Signore, è l’occasione per pensare a cosa farebbe ciascuno di noi. La grande importanza della Parola: l’eterno che si dà nella Scrittura è a disposizione dell’ascolto di tutti - Edizioni Paoline

Scriveva Rainer Maria Rilke nelle sue Lettere a un giovane poeta: «Se la vostra giornata vi sembra povera, non accusatela. Accusate voi stesso di non essere abbastanza poeta per chiamare a voi le sue ricchezze». A volte siamo troppo chiusi in noi stessi per accorgerci di quanto di bello ci accade intorno. Dobbiamo insomma evitare quello che don Tonino Bello chiamava «complesso dell’ostrica»: «Siamo troppo attaccati allo scoglio. Alle nostre sicurezze. Alle lusinghe gratificanti del passato. Ci piace la tana. Ci attira l’intimità del nido. Ci terrorizza l’idea di rompere gli ormeggi, di spiegare le vele, di avventurarci sul mare aperto». A volte, per uscire in mare aperto ci vuole un richiamo. Il richiamo è quello della Parola che come insegna il cardinal Ravasi, ha un duplice movimento: centripeto, quando un’esegesi ci riconduce al cuore del testo biblico e alle sue verità; centrifugo quando riconosciamo che quelle verità sono per noi, riguardano la nostra vita.

Dove altro può fiorire l’eterno se non nelle nostre esistenze? Il messaggio evangelico è rivolto a tutti, è indirizzato «a tutte le nazioni » (Mt 28,19), a tutti i Gentili, «che sono chiamati a partecipare della stessa eredità, a formare lo stesso corpo, a essere partecipi della promessa per mezzo del Vangelo » (Ef 3,6). «Unico è il popolo» di Dio, scrive il cardinal Ravasi. Insomma l’eterno che si dà nella parola biblica è a disposizione dell’ascolto di tutti. Ma perché questo ascolto sia possibile le parole devono tornare a essere vive, proclamate, come nella tradizione ebraica, dove si parla di miqra’, di lettura pubblica della Parola divina, o come nelle nostre omelie. Questo della proclamazione è un aspetto che, come direttore di un giornale e formatore, come frate a contatto quotidianamente con molti fedeli, mi sta molto a cuore. Faccio mie le parole di Ravasi: le omelie, ma in generale ogni discorso pubblico che riguardi la fede, sono spesso meritevoli «dell’impietoso giudizio di Voltaire, “simili come sono alla spada di Carlo Magno, lunga e piatta, perché ciò che i predicatori non sanno darti in profondità, te la danno in lunghezza”».

Ma, solo se si riesce a testimoniare la Parola nella sua forza e sapienza, si rende giustizia all’idea di ecclesia, che significa proprio «convocazione». Ecco come si supera il complesso dell’ostrica. La Parola è capace di esprimersi in infinite lingue e, se pensiamo che nel mondo ne esistono 6500, è come se il messaggio biblico potesse raggiungere tutti. La Parola, ciò che gli Ebrei chiamano Davar e noi Logos, è il fondamento della creazione, è essa stessa creativa. Ricordate la Genesi: Dio nomina e proprio nel nominare crea. Pensate al Vangelo di Giovanni: «In principio era la Parola» (1,1). La Parola è la scaturigine della creazione ed è anche l’ancora della salvezza. Il poterla ascoltare, esserne in grado, è una grazia. «Il Signore vi parlò dal fuoco: una voce di parole voi ascoltaste; non un’immagine, voi vedeste; solo una voce» (Dt 4,12). Ecco perché è così importante la proclamazione, l’oralità connessa alla Parola: con una battuta possiamo dire che Dio ci parla, più che scriverci. Pensiamo più al suono di una voce, che all’immagine delle lettere scritte. Esiste una melodia nella Bibbia che è importante quanto il significato. Mi è capitato di ascoltare il Padre Nostro in aramaico: sembra di udire una musica. La Parola, con Cristo, è Logos eterno e insieme voce. Ecco perché shama’, “ascoltare”, è così rilevante e, non a caso, è il nono verbo per frequenza nell’Antico Testamento. Ancora Ravasi, nel suo libro Verso la grotta di Betlemme, spiega come l’ascolto sia una specie di catena: c’è «Colui che ascolta la preghiera» (Salmo 65,3), chi chiede la grazia di avere un «cuore che ascolta» (1Re) e chi è chiamato ad ascoltare: «Ascolta, figlio, l’istruzione di tuo padre» (Pro 1,8). «Orecchio di Dio, orecchio del padre, orecchio del figlio», riassume esemplarmente il cardinal Ravasi. L’ascolto è di per sé una forma di preghiera. «Dio parla nel silenzio del cuore. Ascoltare è l’inizio della preghiera», diceva Madre Teresa di Calcutta. In questo senso, don Mazzolari ricorda che le chiese o sono vive o sono morte. La chiesa è la comunità dei credenti, siamo noi. A patto di essere cristiani vivi, ovvero cristiani che hanno incontrato e ascoltato il Cristo, allora, come vedremo, l’aspra denuncia di Nietzsche non regge.