Chiesa

La canonizzazione / 2. Roncalli e Wojtyla: ecco perché Santi insieme

Stefania Falasca lunedì 28 aprile 2014
Non ci resta che pregarli: sono santi. Rovesci della stessa medaglia. Secondo l’unico criterio che la Chiesa da sempre riconosce per proclamarli tali, e cioè che la santità consiste essenzialmente nell’unione con Dio realizzata dalla grazia. Tutta la plurisecolare e complessa procedura che oggi porta Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II agli onori degli altari serve solo per accertare se questo c’è ed è autenticamente vissuto. E a questo livello, che i candidati suggeriti dal sensus fidelium, indicati dal popolo di Dio siano netturbini, operaie, scaricatori di porto o Papi, nulla cambia. Nella sua Mistica oggettiva Adrienne von Speyer osservava: «La santità non consiste nel fatto che l’uomo dà tutto, ma nel fatto che il Signore prende tutto», in un certo senso anche a dispetto di colui che il Signore sceglie. «I santi non sono superuomini – ha ricordato papa Francesco – né sono nati perfetti. Sono persone che per amore di Dio nella loro vita non hanno posto condizioni a Lui, non sono stati ipocriti; hanno speso la loro vita al servizio degli altri... non hanno mai odiato». Non è allora la Chiesa a fare i santi, sono i santi a fare la Chiesa. Siamo perciò tutti chiamati a vivere della vita di cui vivono i beati, cioè la vita della grazia e ci è necessario il vitale consortium con loro, con i nostri fratelli che sono nella gloria celeste, così come insiste il Concilio Vaticano II, che alla vocazione universale alla santità ha dedicato un intero capitolo della Lumen gentium. Così come mostra Papa Francesco con il suo agire quotidiano e il suo promuovere la devozione verso di loro. Nel mezzo del diluvio di commenti, commemorazioni, analisi e riletture politiche riguardo alle canonizzazioni di questi due Papi, si distingue il modo con il quale Francesco ne fa memoria. Papa Bergoglio non si è soffermato a descrivere i tratti esorbitanti della vicenda pubblica del pontificato wojtyliano, a rievocare la grandezza "fuori misura" che ha segnato il papato sul piano storico oltre che ecclesiale. Già l’indomani della morte di Giovanni Paolo II il ricordo personale che l’allora arcivescovo di Buenos Aires aveva destinato alla pubblicazione, e che mi consegnò in una semplice paginetta scritta a mano, era incentrato su di un particolare intessuto di una trama più intima, tutta spirituale. Rievocava un momento di preghiera che aveva condiviso con Papa Wojtyla e nel quale era rimasto attratto dalla sua testimonianza di pietà: «Compresi allora la presenza di Maria nella vita del Papa. La testimonianza non si è persa in un istante. Da quella volta recito ogni giorno i quindici misteri del Rosario». E su questi aspetti meno appariscenti, ma che evidenziano il tessuto dell’essere cristiano, s’incentra anche la deposizione che Bergoglio rese poi al processo di canonizzazione di Giovanni Paolo II nel 2005 (della quale Avvenire ha offerto un ampio resoconto il 17 aprile). Sul volo che da Rio de Janeiro lo riportava a casa dalla Giornata mondiale della gioventù Papa Francesco ha voluto ricordare il suo predecessore come apostolo, missionario del Vangelo in tutto il mondo. L’accento di Bergoglio è posto al cuore, alla sostanza di quella santità possibile a tutti, a ognuno nel proprio stato, nel quotidiano, quella che lo scrittore francese Joseph Malègue chiama «classe media della santità» quella che sola può trasformare l’ordinario in straordinario. Così Papa Francesco ci ha parlato anche di Giovanni XXIII. Della bontà che ha caratterizzato il suo magistero, del suo essere stato «un prete con bontà» e della cura personale per il proprio progresso nella fede fino a spogliarsi «completamente di se stesso per essere conforme al suo Cristo Gesù... e la radice della sua santità si trova in questa sua obbedienza evangelica». «L’esercizio della bontà pastorale e paterna deve riassumere tutto l’ideale della mia vita episcopale» aveva scritto nel suo diario proprio in riferimento all’esempio di Gesù, Pastor bonus. È la forma di azione che per Papa Giovanni si radica nell’immagine del Dio-Misericordia. Un dato che venne percepito dalle folle, cattoliche e non, fin dalla sua elezione. Il suo successore, Paolo VI, lo ricordava con queste parole: «Benedetto questo Papa che ci ha fatto godere un’ora di paternità e di familiarità spirituale, e che ha insegnato a noi e al mondo che l’umanità di nessun’altra cosa ha maggior bisogno, quanto di amore». E la testimonianza di vita cristiana di Giovanni XXIII, nell’assoluta coincidenza tra quanto egli insegnò e quanto visse con fedeltà quotidiana alla sua vocazione, l’urgenza evangelica che egli seppe risvegliare nel corpo ecclesiale, le sue intuizioni pastorali e l’ampiezza degli orizzonti pastorali da lui abbracciati e proposti con la convocazione del Concilio Vaticano II «sono un faro luminoso per il cammino che ci attende», ha dichiarato Francesco. È la santità non come eccezionalità ma come norma dell’agire cristiano, anche di un Papa. Anzi, questo ci dicono oggi queste canonizzazioni papali: che non ci vuole niente di meno che la santità per questo servizio. E paradossalmente queste due canonizzazioni ci riconsegnano la figura del Papa come figura cristiana, semplicemente cristiana. Ciò che Dio chiede al Papa è di essere cristiano. Non una figura di rappresentanza ma una testimonianza autentica e credibile del cristianesimo, nella quale lo stesso popolo di Dio si identifica e si edifica.In ogni causa di canonizzazione la prassi richiede che ci si interroghi non solo sulla santità di ogni candidato ma anche sull’opportunità di proporre nel tempo presente la sua esemplarità, e appare evidente che nella temperie ecclesiale di oggi proprio la doppia canonizzazione di due successori dell’apostolo Pietro nel segno della misericordia assume un significato profetico: è di nuovo tempo di seguire il vento dello Spirito, che spinge la sua Chiesa semper reformanda a camminare sulle strade del Vangelo.