L’arcivescovo salvadoregno Oscar Arnulfo Romero è stato assassinato
in odium fidei. I teologi ne riconoscono il martirio. Ieri i membri del Congresso che li riunisce presso la Congregazione delle cause dei santi hanno espresso il loro voto unanimemente positivo sul martirio formale e materiale subìto dall’arcivescovo di San Salvador il 24 marzo 1980. Si tratta di un passo decisivo per il vescovo latinoamericano ucciso mentre celebrava l’Eucaristia e che già il popolo acclama come santo. Ora, secondo la prassi canonica, per la beatificazione non resta che il giudizio del Congresso dei vescovi e dei cardinali e infine l’approvazione del Papa, con la conclusione dell’iter che lo porterà presto alla beatificazione. Il pronunciamento sul martirio segna l’apice di una causa travagliata. Iniziata nel marzo 1994, dopo la chiusura dell’inchiesta diocesana l’anno seguente, il suo postulatore l’arcivescovo Vincenzo Paglia aveva cominciato l’iter presso la Congregazione vaticana nel 1997. Tuttavia la necessità di studiare e di esaminare a fondo la condotta e gli scritti di Romero nel difficile contesto della situazione sociale e politica salvadoregna del suo tempo ha determinato un andamento caratterizzato da interruzioni e soste, da concessioni e sospensioni, peraltro concluse positivamente. Nel 2007, in viaggio verso il Brasile, Benedetto XVI disse chiaramente che riteneva Romero degno degli altari. «Non dubito – disse parlando con i giornalisti sull’aereo – che la sua persona meriti la beatificazione». «L’arcivescovo Oscar Arnulfo Romero è stato un grande testimone della fede e della domanda di giustizia sociale e le verifiche per il
nihil obstat dottrinale al suo processo di beatificazione hanno avuto un’accelerazione già con Benedetto XVI», affermava nell’estate 2013 l’arcivescovo Gerhard Ludwig Müller, attuale cardinale prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Parole che arrivavano dopo la conferma, nell’aprile precedente da parte dello stesso dicastero, che erano state superate le riserve di carattere «dottrinale e prudenziale». «Adesso i postulatori devono muoversi perché non ci sono più impedimenti», ha detto il 18 agosto scorso Papa Francesco durante il viaggio aereo di ritorno a Roma dalla Corea. Mentre l’altro ieri, durante l’ultima udienza generale, ha richiamato l’insegnamento di Romero citando una sua omelia del 1977 pronunciata in occasione dell’omicidio di un prete vittima degli squadroni della morte. L’insegnamento di un buon pastore che come una madre dà la vita per i suoi figli. Un’annotazione che rimanda alla vicenda stessa del presule. Per il riconoscimento del martirio formale (
ex parte persecutoris) da parte dei teologi non può infatti che esaminarsi l’odio che armò la mano assassina. Un odio profondo nutrito verso di lui da alcuni governativi e militari salvadoregni esclusivamente in ragione del suo amore per la giustizia e per la difesa dei poveri. Come diversi testimoni hanno pubblicamente affermato «Romero venne ucciso per il suo amore per la giustizia e per la profonda carità che aveva verso i più deboli». In definitiva l’uccisione dell’arcivescovo non fu provocata dalle sue posizioni "politiche" ma esclusivamente dalla coerenza con la fede e con il magistero della Chiesa. Una ragione quindi esclusivamente pastorale, religiosa. Come già sottolineò con chiarezza il successore di Romero, Arturo Rivera Damas, «in un contesto di polarizzazione segnato dagli interessi geopolitici che si combattevano nel Paese, si scambiò per connivenza con l’ideologia socialista anche la difesa concreta del popolo inerme, dei poveri e degli ultimi, che uomini come Romero sostenevano non per vicinanza alle idee socialiste ma per semplice fedeltà al Vangelo». Durante le omelie domenicali infatti egli denunciava la violenza e il sopruso esortando tutti alla pace e alla riconciliazione. Inevitabile il conflitto con i capi del governo. Che però non spinse a recedere dalla sue posizioni, come gli suggerivano in molti, ma anzi lo confermò nella scelta della verità evangelica e della responsabilità pastorale. «Perché fu assassinato? – si domandava monsignor Gregorio Rosa Chavez, uno dei suoi più stretti collaboratori nel 20° della morte –. È un po’ come chiedere perché ammazzarono Gesù Cristo». A leggere le sue ultime frasi nell’omelia della Messa in cui fu ucciso, sembra quasi chiedere al carnefice di permettergli «di morire quando vado all’altare, per offrire il pane e il vino». Infatti poté terminare l’omelia, venendo ucciso all’offertorio, divenendo egli stesso sacrificio. «Un’immagine alla cui luce si può leggere tutta la sua vita e la sua morte. Visse e morì come sacerdote, come pastore buono innamorato di Cristo e del suo popolo».