Il tema. Cosa ci dice di noi (e di Dio) la Via Crucis di un giovane gay
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Come accompagnare le persone omosessuali nel cammino di fede? Come costruire una Chiesa custode della verità e aperta al mondo, senza discriminazioni? Come aiutare tutti, indipendentemente dal loro orientamento sessuale, a realizzare la loro vocazione? Sono tutti quesiti oggi al centro del dibattito, domande che non riguardano solo coloro che chiedono di entrare in Seminario o in noviziato ma ogni singolo battezzato. Sono diversi i contributi che Avvenire ha offerto in queste settimane per aiutare il confronto: in questa serie rientra anche il contributo, che pubblichiamo di seguito, a firma del domenicano inglese Timothy Radcliffe, già maestro dell’Ordine dei predicatori dal 1992 al 2001. Si tratta della prefazione alla traduzione inglese del libro di Luigi Testa «Via Crucis di un ragazzo gay» (64 pagine, 17,50 euro), edito in Italia da Castelvecchi Editore.
Grazie, Luigi, per aver avuto il coraggio di condividere la tua dolorosa ma bellissima Via Crucis. Tanti percorrono la propria via crucis da soli ed impauriti. A motivo del loro orientamento sessuale, o perché sieropositivi, o perché portano le cicatrici di un abuso, o per cento altre ragioni. Ma tu, Luigi, sai che noi non camminiamo mai da soli, perché Gesù cammina con ciascuno di noi.
“You’ll never walk alone” era originariamente il brano di un musical, composto proprio nell’anno in cui sono nato. Poi, è diventata una canzone che oggi parla a tante persone, in questo nostro tempo di grande solitudine. La cantano i tifosi del Liverpool, e durante la pandemia da Covid19 è diventata la canzone di chi era in isolamento, ed anche del personale medico.
Ma il Signore cammina con noi in un senso ancora più intimo di quanto possiamo immaginare, al centro del nostro essere, condividendo i nostri dolori e le nostre gioie. Sant’Agostino scrive di Dio che Egli è più intimo a noi di noi stessi. Così, anche se a volte ci sembra di esserlo, non potremo mai essere realmente soli, perché, nel nostro più profondo intimo, c’è Dio.
Il libro di Luigi è un dono per tutti coloro che si sentono soli, soprattutto per la loro omosessualità. Egli osa uscire allo scoperto e incoraggia tutti noi a farlo, sicuri che il Signore ci ama così come siamo, e che non c’è da aver paura della luce.
Dopo la storia della caduta nella Genesi, Adamo ed Eva hanno bisogno di vestiti perché si vergognano. Ma nella Chiesa primitiva i catecumeni erano battezzati nudi, perché il tempo della vergogna era finito. Gregorio di Nissa scriveva a proposito del Battesimo: «Non dobbiamo più coprirci con il fico della vita amara, ma gettare via queste foglie caduche che ricoprono la vita, ritornare al cospetto del creatore» (De virginitate, XIII, 1,15f). E un’antica preghiera orientale chiede così: «Togli il velo dai nostri occhi; infondici fiducia; non permettere che ci vergogniamo o ci imbarazziamo; non permettere che ci disprezziamo» (Euchologion Serapionis 12, 4).
Spesso le persone si presentano al mondo indossando maschere o proiettando false immagini di sè, che sperano le possano proteggere dalle ferite. Ma Dio ama ciascuno di noi così come è, e quando le persone vedono la nostra umanità, con la sua bellezza e fragilità, la sua vulnerabilità e forza, persino i nostri fallimenti, come possono non amarci? Nel meraviglioso romanzo Gilead di Marilynn Robinson, il vecchio pastore scrive: «Ogni volto umano esige qualcosa da te, perché non puoi fare a meno di capire la sua unicità, il suo coraggio e la sua solitudine».
L’odio è, di solito, per le astrazioni: “quegli immigrati”, “quegli stranieri”, “quegli omosessuali”. L’altro, nella sua umanità unica, fatta a immagine e somiglianza di Dio, viene astratto come uno di “quelli”. Luigi ha osato mostrarsi così com’è, con il suo calore, il suo amore e il suo desiderio, e noi gli vogliamo bene per questo, anche se non lo conosciamo di persona.
Papa Francesco ha scritto: «La realtà è superiore all’idea» (Evangelii Gaudium, 231). L’amore di Dio è per ciò che è reale, per ciò che è mantenuto nell’essere da Colui il cui nome è Io Sono.
La notte prima di morire, l’Evangelista Giovanni racconta che Gesù lavò i piedi ai suoi discepoli. Quel gesto incarnava un’attenzione particolare e delicata per ciascun discepolo. Chet Corey lo coglie bene, in una sua poesia: «Il piede di Matteo dall’alluce valgo, il callo / dell’alluce di Giovanni – e i piedi di Tommaso, / grandi come patate, con la gotta che gli fa male / all’alluce sinistro; i piedi piccoli di Filippo, / quelli ben formati di Bartolomeo / e Andrea; i piedi leggeri di Taddeo, / che sembra non camminasse in mezzo agli altri, / non come quelli di Giacomo, figlio di Alfeo, / dalla pelle così fredda e secca al suo toccare» (“Footwashing”, National Catholic Reporter, 9.04.2004, p. 16).
La via della croce ci tocca più profondamente quando non ci limitiamo ad immaginare la sofferenza di Gesù, ma quando proviamo una tenerezza verso di lui e verso la sua sofferenza fisica. Le donne spesso lo sentono in modo più acuto e sono state soprattutto loro a radunarsi ai piedi della croce per stare vicino a Gesù nei suoi ultimi momenti. Quando Maria Maddalena incontra il Cristo risorto nel giardino, vuole toccarlo. Santa Caterina da Siena, domenicana del XIV secolo, aveva un profondo senso di tenerezza fisica per Gesù, che non è solo un Salvatore, ma il nostro dolcissimo Signore.
È raro che santi maschi siano in grado di provare o esprimere la stessa intimità con Gesù sofferente. C’è, ad esempio, la meravigliosa poesia di san Giovanni della Croce, dove egli desidera Gesù proprio come un amante: «In una notte oscura, / con ansie, dal mio amor tutta infiammata, / oh, sorte fortunata!, / uscii, né fui notata, / stando la mia casa al sonno abbandonata. / [...] Là giacqui, mi dimenticai, / il volto sull’Amato reclinai, / tutto finì e posai, / lasciando ogni pensier / tra i gigli perdersi obliato» (Notte oscura).
Nella sua Via Crucis, il dono di Luigi è quello di aprirci tutti alla tenerezza più profonda per il Signore, che egli desidera abbracciare, baciare e accarezzare. E questo dà allo stesso tempo gioia e dolore profondo al suo cammino con Cristo. Nell’undicesima stazione, quando Gesù viene inchiodato alla croce, scrive: «Quelle mani – che tante volte mi hanno accarezzato, che mi hanno stretto mentre perdevo l’equilibrio e mi hanno rialzato – ora sono inchiodate, immobili, ferme. Non mi puoi più abbracciare; non mi puoi accarezzare. Quei piedi – che tante volte hanno camminato con me, che tante volte avrei voluto coprire di baci, come fa Maria alla vigilia della tua passione – ora sono fissi alla croce con dei chiodi, paralizzati. Non puoi più camminare con me. Non puoi rincorrermi, se scappo».
Luigi conosce con intensità anche altro, del corpo del Signore: il suo volto, ad esempio. Israele desiderava vedere il volto di Dio – “Fa’ splendere il tuo volto su di noi e saremo salvi” (Sal 67) –, ma non poteva vederlo e non morire. Questo volto, ora, si è fatto carne e sangue nel volto dell’uomo che è morto sulla croce.
Quante volte desideriamo vedere quel volto che non possiamo nemmeno immaginare? É questa la nostra felicità inimmaginabile, la visione beatifica. La vita e l’amore hanno insegnato a Luigi a cercare questo volto. Quando Gesù incontra la Veronica, alla sesta stazione, egli scrive: «La donna resta lì, mentre tu sei portato via e ancora ti volgi a guardarla. Tra le mani il panno con cui ti ha asciugato il volto, e che ora porta impressi – col sangue – i tuoi dolcissimi lineamenti. Il tuo volto così bello, mio dolcissimo Gesù. Bellezza coronata di spine, bellezza schernita, bellezza derisa e rifiutata. Bellezza imbrattata».
La bellezza di ogni volto ci prepara a vedere colui il cui volto è il più bello e alla cui luce tutti i volti risplendono. Geard Manley Hopkins, il poeta gesuita, scrive: «Cristo gioca in diecimila luoghi, / bello d’aspetto, e bello non nello sguardo suo, / ma attraverso le fattezze degli umani volti, per il Padre » (As Kingfishers catch fire).
Nell’opera di Michelangelo, nella Cappella Sistina, vediamo Dio tendere la mano per toccare l’Adamo addormentato e dargli la vita. Come nella Genesi, Adamo non viene creato solo con una parola, come gli altri animali, ma Dio “forma l’uomo dalla polvere del suolo” (2,7). Gesù viene a toccare l’intoccabile: i malati, perfino i lebbrosi. Egli è il tocco di Dio, che crea e guarisce. È «la mano di Dio», come lo chiama il domenicano giapponese Shigeto Oshida.
Luigi percepisce profondamente la bellezza di quel tocco e lo desidera. Alla fine delle stazioni, chiede con forza: «Ora che sono arrivato alla fine, tienimi con te. Non sarò ubbidiente come la Maddalena, non mi fermerò al tuo “non mi toccare, non mi trattenere”. Ti toccherò, invece. Ti tratterrò. Non mi staccherò da te, e resteremo insieme per sempre nel giardino della resurrezione».
Il valore della nostra corporeità è al centro dei più grandi insegnamenti cristiani: la creazione, l’incarnazione, il dono del corpo di Cristo nell’Eucaristia, la risurrezione dei morti. Come possiamo amare la nostra fede se abbiamo paura della nostra corporeità, e se non osiamo guardarci in faccia e guardare all’altro, e nell’altro vedere l’immagine del nostro Dio? In modo incantevole, Luigi fa chinare Gesù a scrivere a terra, perché la donna che è stata accusata di adulterio possa vedere il suo volto: «Forse, chissà, si è abbassato con la scusa di scrivere a terra perché voleva che tu ne vedessi il volto, non solo le gambe, i piedi. Tu non sai quante donne, quanti uomini, ti invidieranno, Maria, perché a te è stato dato di incontrare il suo volto mentre tutti ti condannavano. Non sai quanti trascinati nudi saranno gettati in pasto a volti inferociti, senza nessuna misericordia, senza nessun pudore, in un giudizio senza rispetto di nessuna intimità, e non troveranno un volto a dirgli: “Io non ti condanno”».
Alla fine della prima sessione del Sinodo, ho chiesto a una donna – che stimo e ammiro – cosa pensasse della Sintesi che era stato approvata. Mi ha risposto che era troppo teologica. “Cosa vuoi dire?”, le ho chiesto. “Troppo astratto”. È paradossale che la teologia cristiana di un Dio che si è fatto carne possa essere considerata astratta. Eppure spesso questa teologia cristiana è davvero astratta, lontana dal battito del cuore, dal tatto e dal sapore dell’umanità, dal nostro dolore e dalla gioia che viviamo. Yves Congar, uno dei Padri del Concilio Vaticano II, amava citare Charles Peguy: «Non il vero, ma il reale». La Via Crucis di Luigi racconta di un cristiano gay che segue il Signore nella complessità reale di una vita umana. Grazie a Dio. E grazie a Luigi.