Coronavirus. Quelle Messe all’aperto nel Villaggio della speranza
La Messa all’aperto nel Villaggio della speranza, cittadella della carità alle porte di Bologna
L’hanno chiamato Villaggio della speranza, e non è per modo di dire. Qui la speranza si fa esperienza quotidiana, attraversando le generazioni, le condizioni sociali, le nazionalità. Siamo a Borgo Panigale, periferia di Bologna, in un luogo che i bolognesi conoscono come Villa Pallavicini dal nome di una nobile famiglia che l’abitò.
Nel 1955 il cardinale Giacomo Lercaro ricevette in donazione l’imponente edificio in stile neoclassico e il terreno adiacente e ne affidò la cura a don Giulio Salmi, un sacerdote «dalla carità audace », come lo definì don Giuseppe Dossetti e di cui il 19 maggio ricorre il centenario della nascita. Don Giulio ne fece una delle espressioni di carità della Chiesa petroniana accogliendo migliaia di giovani – provenienti prima dall’Appennino, poi dal Meridione e più recentemente dal Terzo mondo –, aiutandoli nella ricerca di lavoro e accompagnandoli a una piena autonomia di vita.
Poi, negli ultimi anni di vita, l’idea del Villaggio della speranza, un’esperienza di convivenza ante-litteram, quando ancora il termine co–housing non andava di moda: 120 appartamenti, 300 persone in condizione disagiata, di varia estrazione e provenienza: coniugi anziani, vedovi, giovani coppie in difficoltà economica, famiglie italiane numerose (la più prolifica ha 14 figli), famiglie di origine straniera che compongono un mosaico di 25 nazionalità. Gli appartamenti vengono offerti gratuitamente chiedendo un piccolo contributo per il mantenimento delle strutture e del grande parco. A guidare e animare questo campionario di varia umanità che fa dell’accoglienza reciproca il suo canone è don Massimo Vacchetti, attuale presidente della Fondazione Gesù Divino Operaio e secondo successore di don Salmi.
Don Massimo è un gigante che sprizza energia da tutti i pori, non abbandona mai la sua tonaca nera e ha alle spalle qualche anno come arbitro di calcio. «La nostra parola d’ordine è condivisione – racconta –. Ognuno aiuta l’altro come può: c’è chi si rende disponibile per fare la spesa o per piccole commissioni, chi offre tempo per fare compagnia ad anziani, malati o disabili, chi prepara il pranzo o la cena per il vicino di casa.
È un’esperienza di vicinato “cuore a cuore” che rende più umana la vita, e in tempi di coronavirus è diventata ancora più stringente. Il cemento della nostra convivenza si chiama fede: per questo abbiamo proposto la recita comunitaria del Rosario utilizzando una piattaforma digitale che ci permette di pregare restando ciascuno a casa sua (e con l’intervento dei giovani che hanno aiutato gli anziani a utilizzare smartphone o pc senza andare in confusione...). All’inizio abbiamo aderito all’invito lanciato dal cardinale Zuppi per una novena, poi si è deciso di continuare vivendo questo gesto come un aiuto per affidare alla Madonna le nostre esistenze e quelle di familiari e amici». Un gesto che si aggiunge all’adorazione eucaristica nella cappella del Villaggio, che don Massimo ha proposto alcuni mesi fa e che viene praticata quattro volte alla settimana, di giorno e di notte. «Vivendo in un luogo costruito attorno ad alcune corti, abbiamo anche ottenuto dall’arcivescovo la possibilità per i quattro sacerdoti che risiedono qui di celebrare la Messa disponendo l’altare al centro di ciascuna corte, così la gente partecipa affacciandosi alle finestre. È un piccolo–grande aiuto per sentirsi tutti parte di una comunità. E per alimentare una speranza che nessun virus potrà distruggere».