Ore 18.15. Una dopo l’altra, migliaia e migliaia di
piccole fiamme si accenderanno all’unisono. Affacciate alle finestre delle case, luci di candela palpiteranno insieme da un capo all’altro di El Salvador, il
“Pollicino d’America”. Il più piccolo dei Paesi del Continente è la terra di uno dei martiri e santi maggiormente emblematici del Novecento, non solo latinoamericano:
Óscar Arnulfo Romero, assassinato esattamente quarant’anni fa. Proprio
alle 18.15 di quel lunedì 24 marzo 1980, mentre celebrava la Messa nella cappello dell’ospedale della Divina Providencia, una
pallottola gli ha trafitto il cuore, fermandolo poco dopo. A esploderla un sicario assoldato dal regime al potere, ansioso di spegnere la voce scomoda
dell’arcivescovo di San Salvador. «Che questo corpo immolato e questo sangue sacrificato per gli uomini ci sostengano per dare anche noi il nostro corpo e il nostro sangue alla sofferenza e al dolore, come Cristo, non per sé, ma per offrire semi di giustizia e di pace al nostro popolo», aveva detto qualche istante prima, nell’omelia,
Monseñor, come lo chiamano i concittadini. L’amore per il “popolo”, il
Popolo fedele di Dio, la Chiesa, l’ha portato a denunciare evangelicamente il sistema di oppressione, la violenza e l’ingiustizia a cui la Guerra fredda aveva condannato El Salvador. Sentimento contraccambiato, come dimostra il fiume di fedeli che, ogni giorno, attende in silenzio il proprio turno per recitare una preghiera sulla sua tomba, nella cripta della Cattedrale.
Per la prima volta in quattro decenni, però, oggi, il popolo romeriano – quel popolo “profeta e martire” che aveva educato il suo vescovo, come scrive Alberto Vitali in Óscar A. Romero, pastore di agnelli e di lupi (Paoline) – non potrà stringersi al suo santo. Non potrà affollare la
cappella dell’Hospitalito (il luogo stato ucciso), per la Messa del mattino presto. Né snodarsi per le vie della capitale in
processione. Né inondare la
Cattedrale per la Messa della sera, presieduta dall’arcivescovo, José Luis Escobar Alas. Le celebrazioni si terranno senza la presenza dei fedeli, a causa dell’epidemia di coronavirus che, la settimana scorsa, ha raggiunto anche El Salvador. I media arcidiocesani e della Conferenza episcopale nazionale li
trasmetteranno in diretta su tutti i canali a disposizione. La rete dei movimenti di ispirazione romeriana e le comunità di base hanno, però, voluto invitare la popolazione ad accendere una candela nel momento esatto del martirio di Monseñor, per accompagnarlo “a distanza”.
Il giubileo dei martiri
Aveva immaginato diversamente questa giornata la Chiesa salvadoregna e anche gli uomini e le donne di buona volontà, credenti e non credenti, che, ogni anno, fanno memoria di Romero. Doveva essere il cuore dell'Anno giubilare dei martiri dichiarato dalla Conferenza episcopale lo scorso 23 gennaio. Un lungo percorso spirituale per ricordare i molti martiri il cui sangue ha impregnato il suolo salvadoregno. Cominciato il 12 marzo scorso con il ricordo di padre Rutilio Grande, gesuita e parroco di Aguilares, amico dei contadini e preziosa fonte di ispirazione per monsignor Romero. Da sempre, nel giorno dell’omicidio, una folla di uomini, donne, bimbi e anziani percorre a piedi i sei chilometri che separano El Paisnal, luogo della morte, da Aguilares. Quest’anno non hanno potuto farlo a causa del Covid-19. Questa è stata la prima iniziativa che i vescovi hanno dovuto sospendere, con profondo dolore. Poco più di due settimane prima, papa Francesco aveva firmato il decreto che riconosce il martirio in odium fidei di padre Rutilio e delle due persone – il catechista Manuel Solorzano e il 13enne Nelson Rutilio Lemus ¬– che hanno condiviso la raffica letale. La festa, però – ha promesso la Chiesa ¬– è solo rimandata ai prossimi mesi, scanditi da altri anniversari importanti. Come il 14 giugno, i quarant’anni dell’assassinio di padre Cosme Spessotto, frate francescano di origine trevigiana, ucciso a San Juan Nonualco. E il grande pellegrinaggio nazionale tra il 31 luglio e il 2 agosto a Ciudad Barrios, città natale di San Romero. Sempre nel 2020, il 14 maggio, cadono i quarantenni del massacro sulle rive del fiume Sumpul, quando seicento profughi sono stati trucidati dall’esercito. «I martiri hanno dato le loro vite e ci hanno accompagnato nel nostro pellegrinaggio di fede. Vogliamo ascoltare la loro voce e, a contempo, farci eco di questa voce», hanno scritto i vescovi nel presentare il giubileo dei martiri. E con coraggio profetico, facendo eco alla voce dei martiri, hanno chiesto una legge che garantisca l’approvvigionamento idrico anche ai quartieri più poveri. Misura di cui l’attuale pandemia rivela ora l’urgenza.