«Gaudete et exsultate». Quando il santo «fa ridere»: il buonumore apre il cielo
Forse la sintesi migliore è nel benvenuto di Domenico Savio a un nuovo amico d’oratorio. «Noi facciamo consistere la santità nello stare molto allegri e nel fare bene il nostro dovere». Se una qualità non può mancare nel “bagaglio” del cristiano, questa è la gioia, di cui il buonumore è specchio, marchio di riconoscimento, immagine esteriore. Lo dicono le agiografie, lo confermano i testi di riflessione spirituale, non moltissimi in verità, lo ripetono fino alla noia i parroci. «Un cristiano non può essere triste». Tesi razionalmente e unanimemente accettata ma molto difficile da realizzare. Perché non si tratta tanto di ridere delle difficoltà ma, ed è più difficile, di affrontare le prove con la sapienza, con il giusto distacco di chi vive nel mondo senza essere schiavo delle sue logiche. Il santo – scrive papa Francesco nell’Esortazione apostolica Gaudete et exsultate «è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo. Senza perdere il realismo, illumina gli altri con uno spirito positivo e ricco di speranza». Un atteggiamento che si impara frequentando la scuola della leggerezza, impegnandosi nello sforzo, a volte davvero eroico, di limitare le ingombranti esigenze del proprio io, le pesantezze dell’egocentrismo. «Gli angeli possono volare perché prendono se stessi con leggerezza», recita una folgorante riflessione di Gilbert Keith Chesterton, che aggiunge: «È facile essere pesanti e difficile essere leggeri. Satana è caduto per la forza di gravità». Il che non vuol dire ovviamente che il narcisista sia condannato alla dannazione ma solo che per lui il percorso di liberazione da se stessi è più difficile.
Tanto l’egoismo è una corsa ad accumulare beni, prestigio, visibilità quanto il cammino verso la santità chiede di abbandonare gli orpelli luccicanti, di non prendere troppo sul serio onori, ricchezze, premi da copertina. E la meta della felicità, che consiste nel realizzare in pieno il disegno che Dio ha su di noi, si raggiunge più facilmente senza inutili zavorre. Il santo è per così dire uno specialista nell’arte, ardua e impopolare, del togliere, del levare, del liberare spazi occupati dalle certezze effimere, per lasciare posto alla vita dello Spirito. È un profeta del ritorno all’essenziale, uno speleologo nelle profondità dell’uomo, alla ricerca di ciò che conta davvero. E questa capacità di andare oltre, gli consente di cogliere i semi di eternità già quaggiù, di vivere con il cuore proiettato a quello che ci attende dopo. Immerso nel presente sì, ma senza farsene travolgere, nella consapevolezza che ciascuno è una parte del mondo senza esserne il centro. Non a caso “umiltà” e “umorismo” hanno un’origine comune, vengono entrambi da “humus”, terra. Chi non si fa condizionare dalla superbia, chi non ne diventa ostaggio capisce che esiste qualcosa di più grande di lui, e del suo io. Di cui anzi impara a sorridere.
Il buonumore dei santi nasce proprio dalla capacità di non prendersi troppo sul serio, il loro pensare positivo dal sapere che ci attende un destino da risorti. «L’ottimismo cristiano non è ottimismo dolciastro – ha scritto san Josemaria Escrivá de Balaguer – e neppure la fiducia che tutto andrà bene. Affonda le sue radici nella coscienza della libertà e nella sicurezza del potere della grazia; un ottimismo che porta a essere esigenti con noi stessi, a sforzarci per corrispondere in ogni momento alla chiamata di Dio». Ci sono momenti duri, momenti di croce, scrive il Papa in Gaudete et exsultate, ma niente può distruggere la gioia soprannaturale che – sottolinea l’Esortazione Evangelii gaudium – «si adatta e si trasforma, e sempre rimane almeno come uno spiraglio di luce che nasce dalla certezza personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto». Il problema semmai si pone quando, anche nel cristiano, il peso della responsabilità confina lo sguardo dentro il perimetro del presente, quando le lacrime sono solo inchiostro per la disperazione e non vocabolario della vicinanza, della compassione. Capita così che le chiese risuonino di inni pasquali mentre il viso di chi le frequenta è ispirato a un perenne Venerdì Santo. Per averne conferma basterebbe osservare la fila di chi si accosta alla Comunione nella Messa domenicale. «Dovrebbero cantarmi dei canti migliori, perché io impari a credere nel loro Salvatore – riassumeva sarcastico Nietzsche –. Bisognerebbe che i suoi discepoli avessero più un aspetto da gente salvata».
Una denuncia che ha anche un suo perché storico, come rivela la condanna del riso e del divertimento, di tanti Padri della Chiesa. O come, più prosaicamente, racconta Il nome della rosa di Umberto Eco. È l’atteggiamento di chi crede che sì, sarà gioia ma nel mondo che verrà, non in questo, confinato nella tristezza. Di chi del Salmo 2 si concentra al massimo sull’invito a rallegrarsi «con tremore» trascurando l’osservazione secondo cui «ride colui che sta nei cieli». Di chi fatica a testimoniare il richiamo dell’altro Salmo, il 34: «Guardate a lui e sarete raggianti, non saranno confusi i vostri volti». I santi, la loro testimonianza, ci aiutano a mettere le cose a posto, sottolineano che il dolore e la sofferenza non possono soffocare la gioia, profonda e duratura, di essere salvati, di avere come destino la vita eterna.
Si dice che don Bosco fosse particolarmente allegro nei giorni delle prove più dure e Francesco d’Assisi, uno che di sofferenza se ne intendeva, è conosciuto anche come “giullare di Dio”. Una filosofia di vita, una capacità di vedere oltre, che Tommaso Moro, apostolo del buonumore, allegro anche sul patibolo dove finì decapitato, spiegava così: «Qualunque cosa avvenga, per quanto cattiva appaia, sarà in realtà sempre per il meglio». La lezione è chiara: non esiste nulla che impedisca un sorriso, che giustifichi il pessimismo o il cattivo umore. Per dirla con Domenico Savio, santo ragazzino: la santità consiste «nello stare molto allegri».