Chiesa

LA CHIESA CHE AIUTA. Preti in corsia, quando la fede “cura”

Mimmo Muolo lunedì 9 gennaio 2012
Hanno imparato a conoscerlo e a fidarsi di lui un po’ alla volta, giorno dopo giorno. Anche quelli che all’inizio lo guardavano come una presenza estranea o “inquietante”. Anche quelli che in un primo momento gli si sono rivoltati contro con stizza o addirittura con rabbia. E alcuni tornano a trovarlo la domenica per la Messa, perfino dopo diversi mesi che sono stati dimessi. Don Mario Cagna è il cappellano del Polo ospedaliero delle emergenze di Lavagna, diocesi di Chiavari e provincia di Genova. Dalle otto di mattina fino al pomeriggio inoltrato lo si può trovare nella piccola ma graziosa cappella dell’ospedale o in giro tra i reparti, dove passa di letto in letto per portare la comunione o più semplicemente per parlare con i malati e i loro familiari.Don Mario appartiene alla task force dei sacerdoti italiani (un migliaio circa sui 36mila complessivamente in servizio alle diocesi) che esercitano il proprio ministero nei luoghi della sofferenza e della fragilità umana. Ospedali, nosocomi, rsa, hospice per malati terminali. Una “vita da prete” sicuramente diversa da quella con cui siamo più abituati ad avere contatto: parroci e viceparroci, ad esempio. Anche se la missione è la stessa: portare il Vangelo in tutti gli ambienti. «E Dio solo sa – afferma il sacerdote ligure – se in un ospedale ce n’è bisogno».Don Cagna ha 47 anni, da quindici è sacerdote, da sei svolge a tempo pieno il ministero di cappellano ospedaliero. I suoi “parrocchiani” sono i 260 ammalati del Polo delle emergenze (tanti sono i posti letto della struttura) più un migliaio di operatori sanitari in servizio nei vari reparti. Ma questa è una “parrocchia” estensibile a fisarmonica, poiché non bisogna dimenticare i familiari, con i quali il contatto è spesso fecondo di relazioni umane come e più che con gli ammalati.Di storie del resto, in questi sei anni, ne sono passate tante davanti agli occhi del giovane sacerdote. «Come quella volta – racconta – che avvicinandomi a una signora nel reparto di rianimazione dove da poco era stata ricoverata sua madre in gravi condizioni, mi sono sentito rispondere con un duro rifiuto alla mia richiesta di dire insieme una preghiera. Il giorno dopo sono tornato, la signora era ancora lì ed è stata lei a chiedermi di pregare. «Sa? – mi ha detto – Ho pensato che a mia madre farebbe piacere». La vita della gente può essere una grande maestra. «Spesso mi sento ringraziare per una parola detta, per il tempo speso con i malati, per un sorriso. In realtà è più quello che ricevo di quello che dò», confida il cappellano. «Ad esempio ho imparato che il silenzio e l’ascolto paziente a volte sono meglio di tante parole». Specie di fronte a situazioni particolari.«Una delle cose che più spesso mi dicono è: "Non me lo merito. Dopo una vita di lavoro e di sacrifici, tutta dedicata alla famiglia, perché proprio a me questa sofferenza?". All’inizio ero tentato di rispondere che non si può fare un commercio con il Signore: "Ti ho dato tanto, adesso ho diritto alla ricompensa". Poi ho capito che il rifiuto della malattia era un atteggiamento umanissimo,un sentimento che talvolta anch’io ho provato. E che, dunque, accompagnando questo sentimento con pazienza e ascolto, prima o poi si sarebbe aperto lo spazio per dire la parola giusta».Ugualmente difficile può essere il rapporto con chi non crede. «C’era una dottoressa – ricorda don Cagna – dichiaratamente atea. Non ero riuscito a entrare in empatia con lei. Ma un giorno è venuta a cercarmi e con mia grande sorpresa mi ha chiesto di recarmi al capezzale di un malato. "Mi sono accorta che le sue parole fanno bene come le mie medicine", mi ha detto. Sono rimasto basito. Non me l’aspettavo proprio, anche se c’è una ricerca condotta in Inghilterra che avvalora anche dal punto di vista scientifico questa tesi».Ma per sé don Mario rifiuta ogni altra etichetta che non sia quella di essere «segno della presenza di Dio vicino alle persone». «Non sono uno psicologo, né un operatore sociale, ma solo un prete. E dal contatto con le persone ho capito che la dimensione spirituale appartiene a ogni persona, anche a chi si professa non credente o addirittura si ribella alla mia presenza, perché è “arrabbiato” con Dio. Tra l’altro anche la rabbia denota relazione. E dalla rabbia può partire la via del ritorno».Per questo nella giornata ospedaliera di don Cagna molto spazio viene dato ai colloqui. Per contratto il cappellano dovrebbe fare 36 ore settimanali più le reperibilità notturne, in cambio delle quali riceve uno stipendio di 1.400 euro netti al mese. «Ma poiché non devo timbrare il cartellino – dice – a volte le 36 ore le faccio in tre giorni. Il resto del tempo lo offro come volontariato. Mi piace pensare che la spesa per i cappellani sia non un costo superfluo, ma una risorsa. Anche per il personale ospedaliero. Negli ospedali ci sono tanti problemi. Se possiamo aiutare a guardarli non solo dal punto di vista tecnico, che pure è importante, il beneficio che ne deriverà andrà certamente a vantaggio di tutti». Credenti e non.