Preti di periferia / 10. Don Francesco, pellegrino lungo le strade della Siberia
Nel villaggio di Palavinnoje, a 330 chilometri da Novosibirsk, don Francesco cominciò a costruire la sua piccola chiesa. Gli ronzavano attorno, aiutandolo a portare i mattoni, i bambini del paese. «Ma tu chi sei, perché sei qui?», domandavano. «Io ho mostrato loro la foto, su un libro, di una chiesa ortodossa, e loro mi hanno detto che quella era la casa di un re. Ecco, ho spiegato, io costruisco la casa per il re dei re». Le voci girano nel piccolo villaggio, e arrivano al nonno di quei bambini, un carbonaio, che va a trovare il prete italiano, legge il Vangelo, si interroga. «In fin di vita, poi, per un tumore ai polmoni, mi accoglieva in casa e si alzava dal letto, e mi raccontava i passi del Vangelo», ricorda don Francesco. «Mi colpì in lui un’evidenza: chi incontra Cristo, ha bisogno di annunciarlo».Tracce di una fede antica e profonda, sotto all’annientamento del socialismo reale. Una fede sopravvissuta in piccolissimi numeri: 18 fedeli in una parrocchia, 15 in un’altra. Ma dei numeri a Francesco non importa. Il suo, dice, è «un lavoro di presenza, di celebrazione della Messa, di amministrazione dei Sacramenti. A me pare che proprio nei piccoli numeri risalti maggiormente il mistero che ciascun uomo è».Come un monaco itinerante per le distese della Siberia, il sacerdote attraversa quegli orizzonti sterminati, solo. Nel silenzio i suoi pensieri si fanno poesia: «Ogni attesa/ ha/ la forma/di Te», scrive. O scrive dei volti delle babushke, e del luccichìo dei laghi, al disgelo; dei vecchi Vangeli dei deportati, che sfoglia con devozione. Va a portare l’Eucaristia, a dare l’Estrema Unzione ai vecchi. Mille incontri gli rimangono nel cuore. In un villaggio al confine col Kazakhstan trova Antonina, una vecchia dagli occhi limpidi, che riesce a far battezzare i suoi nipoti. E le memorie tragiche della deportazione si sovrappongono a canti sacri bellissimi, carichi di fede e di dolore. «Chi ha sofferto – commenta don Francesco – impara a sorridere. Il sorriso più bello l’ho visto sul volto di Anja, 96 anni, in un villaggio della Siberia. Quando sorrideva, sembrava che si aprisse il cielo».
Il mondo, poi, cambia anche a Novosibirsk. «Il consumismo è arrivato pure laggiù, ora il centro della vita è il denaro. C’è poco lavoro, perché nei campi ormai fanno tutto le macchine. L’alcolismo è una grande piaga. È come se questa gente avesse in sé una grande domanda, ma, non trovando risposta, bevesse per dimenticare. Le donne sono più forti, cercano di tenere insieme la famiglia, ma molti uomini sono delle ombre. Ci parli assieme, e il giorno dopo non si ricordano di averti incontrato». Gioie e sofferenza nella vita di quest’uomo di poche parole, silenzioso, attento ai particolari come un contemplativo. «Quest’anno sono andato a prendere in un istituto tre fratellini. Erano così contenti di andare a fare una gita. In realtà, andavo a portarli dalla mamma, che era morta. "Ma come faccio a dire a questi tre che la mamma non c’è più?", mi chiedevo angosciato. Allora ho cominciato a raccontare del Paradiso, di come là si è felici, e solo così ho avuto il coraggio di dire loro della mamma». Un altro dolore, quest’anno: l’andarsene con una donna di un sacerdote russo, un amico. «Il dolore però – commenta lui, a voce più bassa – rafforza sempre il rapporto con Cristo. Ti costringe a domandare a Lui».
Ma se le chiedessero perché è andato tanto lontano, cosa risponderebbe? Lui, quasi sorpreso: «Direi che io non potevo non andare. Vivere, per me, è annunciare Cristo». E, aggiunge e ti meraviglia: «Io penso a me come a un bambino viziato, cui Dio ha concesso tutto». Un altro uomo felice, di una felicità misteriosa, non comprensibile a chi non crede. Ogni anno d’estate torna brevemente in Italia, e quel volo è il momento, racconta, in cui di nuovo si chiede. "Ma Tu, chi sei per me?". Non gli importa dove un giorno sarà sepolto, se in Valfurva o laggiù, tanto, dice pacato, «Cristo c’è dappertutto». Anni fa, tornando a casa gli hanno mostrato l’asse di un soffitto fatto cinquant’anni prima da suo padre, che sul retro portava scritto: «Chi troverà queste righe dica, per favore, un Requiem per me». Non immaginava che quel Requiem l’avrebbe recitato suo figlio, sacerdote, testimone di Cristo a seimila chilometri dalle sue montagne.