Chiesa

Milano. Ecco le tre strade per rinnovare la parrocchia

Luciano Moia lunedì 24 giugno 2024

Una parrocchia a Milano

Sinodalità. Uno stile ecclesiale, un progetto pastorale, ma anche una speranza di rinnovamento che da domani sarà al centro della 73ª Settimana di aggiornamento del Cop (Centro di orientamento pastorale) ospitata quest’anno all’Istituto ambrosiano di Seveso nell’arcidiocesi di Milano. Le riflessioni di teologi, pastoralisti e altri esperti metteranno a fuoco l’idea di una nuova parrocchia, quindi sinodale, missionaria, sempre vicina alla gente. Un’ipotesi di revisione da portare avanti ascoltando la “creatività dello Spirito”, secondo quanto recita il titolo dell’iniziativa. Ma quale profilo immaginare per le comunità della nostra epoca postmoderna e, purtroppo, in molti casi, anche post-cristiana? Ne parliamo con monsignor Luca Bressan, vicario episcopale per la cultura, la carità, la missione e l’azione sociale di Milano che domani aprirà la Settimana con relazione intitolata “Milano come Ninive. Missionari metropolitani pronti a riconoscere gli itinerari dello Spirito”.

Monsignor Luca Bressan - .

Pensando alla realtà di Milano, come immaginare la trasformazione delle parrocchie in chiave sinodale e missionaria?

Farei prima un’osservazione di carattere metodologico, rovesciando un po’ la prospettiva. Se pensiamo di dover essere noi a immaginare come adattarci al mondo abbiamo già perso un’occasione propizia. Chiediamoci invece che cosa sta cambiando nel mondo e lasciamoci interrogare da questo cambiamento. Pensando a una metropoli come Milano non possiamo per esempio non interrogarci sul significato e sulle conseguenze delle trasformazioni urbanistiche. Mi è capitato in questi giorni di andare al carcere minorile Beccaria. Ho visto che nel quartiere stanno sorgendo una decina di torri. In un contesto del genere, impossibile pensare a una parrocchia di tipo tradizionale. Eppure, anche lì dobbiamo pensare a come vivere da cristiani, come annunciare il Vangelo. Forse è il caso di prendere esempio da papa Francesco che nell’Evangelii gaudium spiega che non siamo chiamati noi a ricostruire tutto il reticolo sociale, ma che dobbiamo innanzi tutto imparare a leggere la realtà. Però, lasciata a se stessa, questa dinamica incarna in sé anche il peccato. La città con le sue forme più degradate, le periferie abbandonate, è anche metafora dell’alienazione, mentre il cristianesimo deve riuscire a sconfiggere il peccato, ingaggiando una battaglia contro il male della città. E deve riuscire sforzandosi di pensare a un processo di riorganizzazione, a quella riunificazione simbolica che un tempo, nelle campagne, era la funzione svolta dalle parrocchie. Le campane suonavano per la Messa, per l’Ave Maria, per i Vespri. E così aiutavano la gente a sentirsi un popolo.

Ma oggi, soprattutto nelle grandi città, queste modalità sono impensabili…

E infatti il nostro compito è quello di immaginare come svolgere questi processi nei nostri contesti urbani attuali. Quali opere sociali, per esempio, possono riaggregare le persone? In un quartiere ipermoderno, come quelli che stanno sorgendo in varie zone di Milano, che cosa vuol dire accendere processi capaci di incarnare la fede? La storia della Chiesa di Milano è ricca di buoni esempi in questo senso. Basta pensare alle opere del cardinale Ferrari o alla “grande missione” di Montini. Se ci lasciamo guidare dallo Spirito, anche noi troveremo la strada giusta per le nostre città e per i nostri tempi.

Pensando alla dimensione spirituale della città, quali sono i motivi che ci inducono a non abbandonare la speranza?

Per noi a Milano vale quanto emerso nel Sinodo “ad gentes”. Lo Spirito ci ha inviato altre forme di cristianesimo con cui confrontarci e ci dato l’occasione per tessere reti di solidarietà. Viviamo per fortuna in una realtà in cui basta indicare un bisogno per trovare gente che ancora accetta la sfida della solidarietà. Ma ci sono anche tante persone, giovani, famiglie, che chiedono di essere accompagnate. Sono trasformazioni già in atto su cui riflettere, prima di pensare a modifiche delle strutture pastorali.

Non crede che le proposte pastorali ordinarie delle nostre parrocchie siano da ripensare a partire dal linguaggio?

Parlando di processi simbolici, certamente il linguaggio è fondamentale. Ricorrendo a quello della tradizione, a quello che ci hanno trasmesso i nostri padri, ci sentiamo rassicurati. Ma il nostro compito è anche quello di trovare parole nuove. Non c’è da aver paura, ogni trasformazione comporta dei rischi e chiede responsabilità. Tante generazioni cristiane l’hanno fatto prima di noi.

Quali gli ambiti pastorali da cui partire?

Innanzitutto, quello della preghiera e della liturgia. Senza volerlo anche nella Chiesa si è avviato un processo di secolarizzazione. Le forme che abbiamo recepito dal passato non ci dicono più nulla. Tante modalità della vita di parrocchia sono scomparse ma non sono state sostituite da nulla. È un vuoto che va colmato. Il secondo ambito riguarda il “noi”, cioè come tornare a sentirci comunità. Pensiamo al ritmo degli spostamenti: per il lavoro, per il week-end, per tanto altro. È tutto individualizzato e non facciamo più esperienza di un popolo che cammina verso il Regno di Dio. A Milano capita in modo costante di celebrare l’Avvento con la propria comunità, ma non il Natale, e tantomeno la Pasqua, perché la gente si sposta, viaggia, si muove. L’ultimo ambito è quello della gratuità. Come sentire che l’amore gratuito con cui siamo amati da Dio si esprime allo stesso modo verso i fratelli? Siamo appesantiti da tante cose e sembra che non ci sia più lo spazio per il gratuito che vuol dire l’essenziale, ciò che conta davvero.

Il concetto di sinodalità che cosa può dire alla parrocchia?
Secondo me, sinodalità vuol dire superare l’inerzia delle deleghe e chiederci cosa fare insieme. Vuol dire smettere di criticare cosa fanno gli altri e chiederci cosa possiamo fare noi. Sinodalità è una speranza e una provocazione, ma anche una possibilità e un dovere che riguarda tutti, proprio a partire dalle nostre comunità.