Chiesa

VANGELO E SOCIETÀ. Pellegrini per risanare memoria e natura

Lorenzo Rosoli sabato 31 agosto 2013
A novant’anni dalla tragedia del Gleno, a cinquanta da quella del Vajont, hanno percorso a piedi in dodici giorni i trecento chilometri che separano l’alta val di Scalve, nella Bergamasca, dalla valle del Piave, al confine tra Veneto e Friuli. Li hanno percorsi non come semplici escursionisti, ma con il cuore e lo stile dei pellegrini, i sei camuni guidati dal parroco di Angone di Darfo (Brescia) don Battista Dassa. Pregando, passo dopo passo, giorno dopo giorno, per le vittime di quelle tragedie e per le loro comunità; per il creato, dono di Dio, per chi se ne prende cura, per chi s’impegna perché storie come quelle non accadano più. Storie di dighe. Entrata nella coscienza collettiva, nella memoria della nazione, quella del Vajont, avvenuta il 9 ottobre 1963 provocando duemila morti; quasi dimenticata fuori dalla Bergamasca e dalla Bresciana, quella del Gleno. Vicenda vergognosa. Tragedia rimasta senza giustizia.
È il 1° dicembre 1923 quando, alle 7.15 del mattino, la gigantesca diga del Gleno – lunga 260 metri, innalzata a 1.500 metri d’altitudine sopra l’abitato di Bueggio per contenere 6 milioni di metri cubi d’acqua – malconcepita, malcostruita, nuova di zecca al primo invaso cede sul pilone centrale. La massa dell’acqua, preceduta da un violentissimo spostamento d’aria, semina distruzione e morte in val di Scalve e in val Camonica, placando la sua corsa nel lago d’Iseo, dove al largo di Lovere si raccoglieranno 45 salme. Nelle aule di tribunale titolari, progettisti e costruttori del gigante dai piedi d’argilla verranno incriminati per l’omicidio colposo di 500 persone. Ma il numero vero resta ignoto; come l’identità di molte vittime, irriconoscibili le salme. Il processo? Pene lievi, risarcimenti irrisori. In appello tutti assolti. Le comunità scalvine e camune, già provate dalle conseguenze della Prima guerra mondiale, dalla povertà, dall’emigrazione, alla fine rimarranno sole. Nel dolore della loro tragedia. E nella fedeltà ostinata alla memoria delle vittime e alla volontà di riscatto dei sopravvissuti.
Perciò il gesto dei sette camminatori camuni, il loro omaggio sobrio, intessuto di preghiera e silenzio, alla memoria delle vittime, al ricordo di quelle tragedie, alle ferite inferte al creato, è un’espressione concreta di controcultura in un Paese dalla lacrima facile e dalla memoria corta – anche in materia ambientale – com’è l’Italia, così spesso forte con i deboli e debole con i forti. Strada facendo, racconta don Dassa, i pellegrini hanno ricordato anche altre tragedie e altre vittime: «Come al passo del Tonale, dove ci siamo fermati in preghiera alla cappella dei caduti della Guerra bianca – racconta don Dassa –. Come alla diga di Pontesei, dove il 22 marzo 1959 una frana provocò un’ondata che travolse e uccise il guardiano della diga: nella dinamica, un’anticipazione del Vajont. A Stava – altra storia di dighe – dove il 19 luglio 1985 si ebbero 268 morti, non siamo riusciti a passare, ma abbiamo ricordato anche loro».
Il pellegrinaggio è iniziato il giorno dell’Assunta con una Messa al rudere della diga del Gleno e si è concluso – nella settimana che porta alla Giornata per la custodia del creato – con una Messa al Vajont. «La sera prima, domenica scorsa a Longarone, abbiamo celebrato l’Eucaristia. Alle 22.39, l’ora della tragedia di quel 9 ottobre del ’63, ci siamo raccolti per alcuni minuti in preghiera silenziosa sulla terrazza della chiesa. Abbiamo percorso tappe in media di 25 chilometri al giorno, spesso ospitati in conventi e case religiose, dove abbiamo avuto incontri molti belli – testimonia il sacerdote –. Abbiamo fatto tappa anche a Canale d’Agordo, dove abbiamo ricordato papa Luciani nel 35° del suo pontificato». Don Dassa, prete innamorato della montagna, è un veterano degli esercizi spirituali itineranti. «È bellissimo pregare camminando, immersi nelle meraviglie del creato, come una via che apre all’amore del Creatore. A volte organizzo esperienze di un giorno, ma tutti gli anni propongo un pellegrinaggio di più giorni – racconta ancora il parroco camuno –.
Il cammino dal Gleno al Vajont l’avevo già fatto dieci anni fa, assieme a mia cognata Violetta. Stavolta eravamo in sette: cinque uomini e due donne, coraggiosissime. Più lo Spirito Santo. Per questo pellegrinaggio abbiamo preparato delle magliette con una bella frase di papa Francesco, che incontrando in Vaticano gli studenti delle scuole dei gesuiti, disse: camminare è un’arte, dove quello che importa non è di non cadere, ma di non "rimanere caduti". E di non camminare da soli, ma in comunità, con gli amici, con chi ti vuol bene». Così hanno marciato don Battista e i suoi amici. Tenendo per mano, da una parte, la memoria di tante vittime innocenti, perché il loro sacrificio non sia stato vano; dall’altra, l’appello del creato a non essere trascurato né abusato.