Francesco a Sarajevo. La forza della fede. La testimonianza di tre vittime al Papa
sabato 6 giugno 2015
"Molti mi suggerirono di scappare.
Ma io non ho voluto lasciare soli i miei parrocchiani. Lo stesso
hanno fatto quasi tutti i sacerdoti della mia diocesi, tra i
quali otto sono stati uccisi o sono morti per le conseguenze
delle torture". Ha rivissuto gli orrori della guerra nei Balcani
degli anni '90, papa Francesco, nell'incontro con il clero nella
cattedrale di Sarajevo. Drammatiche le testimonianze del
conflitto fratricida ascoltate da un prete, un frate e una
suora. Come quella di don Zvonimir Matijevic, sacerdote di Banja
Luka.
"La Domenica delle Palme, il 12 aprile 1992, dopo la messa
i soldati mi hanno catturato e portato nella città di Knin,
nella vicina Croazia. Più volte mi hanno percosso fino al punto
di farmi perdere conoscenza a causa del dolore. Hanno cercato di
farmi dire, pubblicamente in televisione, che sono un criminale
di guerra, che i sacerdoti sono criminali e che educano
criminali". Ma don Zvonimir, che per quello che ha subito oggi è
affetto da sclerosi multipla, era piuttosto pronto a morire.
"Hanno deciso di portarmi all'ospedale in fin di vita - ha
ricordato, con la voce che si incrinava -. Il medico ha dovuto,
con un intervento chirurgico, estrarre numerosi grumi di sangue.
In seguito mi hanno detto di avermi somministrato sei dosi di
sangue per farmi sopravvivere". Il Papa, al termine della
testimonianza, ha abbracciato lungamente il sacerdote e si è
chinato a baciargli le mani (foto qui sotto).
Anche il francescano frà Jozo Puskaric si commuove mentre
rievoca e viene poi abbracciato dal Papa (foto sotto). "Il 14 maggio 1992
poliziotti serbi sono arrivati nella casa parrocchiale e mi
hanno portato al campo di concentramento, insieme a molti miei
parrocchiani, pur non avendo fatto nulla di male. La parrocchia,
a Bosanski Samac, è rimasta senza popolazione e la maggior parte
delle case distrutte". Frà Puskaric, che allora aveva 40 anni,
ha detto di aver trascorso quattro mesi nel campo di
concentramento: 120 giorni sono stati come 120 anni o più.
Abbiamo vissuto in condizioni disumane! Per tutto il tempo
abbiamo patito la fame e la sete; in tutti quei giorni e quelle
notti abbiamo vissuto senza le minime condizioni igieniche,
senza poterci lavare, rasare, tagliare i capelli; ogni giorno
venivamo maltrattati fisicamente, picchiati, torturati con
diversi oggetti, con le mani e con i piedi... Colpendomi, mi
hanno rotto, tra l'altro, tre costole".
Inumani anche i trattamenti raccontati da suor Ljubica
Sekerija, delle Figlie della Divina Carità (foto sotto), che allora era a
Travnik, in Bosnia centrale. "Quando è scoppiata la guerra, sono
comparsi miliziani stranieri provenienti da alcuni paesi arabi
del Medio Oriente", ha rammentato, spiegando di essere stata
portata via il 15 ottobre 1993 da combattenti armati con un
camioncino insieme al parroco don Vinko e a tre laici della
Caritas. Nel loro quartier generale, "i miliziani hanno
costretto don Vinko a calpestare il mio rosario con le sue
scarpe. Lui ha rifiutato. Uno dei miliziani, sguainando la sua
spada, ha minacciato il parroco di massacrarmi se non avesse
calpestato e profanato il rosario. Allora ho detto al parroco:
"Don Vinko, lasciate pure che mi uccidano, ma, per l'amore di
Dio, non calpestate il nostro oggetto sacro".
La religiosa ha ripercorso le continue provocazioni e umiliazioni, gli insulti
osceni ricevuti, i calci, le percosse. "In quei momenti
difficili, don Vinko ci ha detto sottovoce: 'Non temete, vi ho
dato l'assoluzione a tutti. Ora siamo pronti a morire in
pace!'".
"Quella notte ci hanno picchiato tutti", ha ricordato
la suora. A un certo punto "ho sentito la canna del fucile sulla
mia fronte e una voce che mi ordinava di confessare l'Islam come
unica e vera religione. Ero spaventata ma restavo zitta, e la
stessa voce mi ha ordinato di non riferire a nessuno quelle
cose, altrimenti la mia testa sarebbe finita all'inferno. Ho
pensato che fosse arrivato il momento della mia morte". Suor
Ljubica, poi liberata da un altro miliziano, oggi può raccontare
quell'esperienza. Ma le ferite dentro restano ancora
aperte.