Roma. "Fratellino": di cosa parla il libro che il Papa ha donato ai vescovi italiani
La copertina del libro regalato dal Papa ai vescovi
Ibrahima è nato in un piccolo villaggio dell’interno della Guinea. È alla ricerca del fratello piccolo, partito con l’intenzione di raggiungere l’Europa e mai arrivatoci. Perciò Ibrahima Balde lascia la Guinea, il lavoro di apprendista camionista, per intraprendere un viaggio che non aveva intenzione di fare, ma che è comune a migliaia di migranti e profughi: lo sfruttamento, le torture in Libia, i respingimenti in mare, e se va bene una nave di salvataggio.
“Fratellino”, edito in Italia da Feltrinelli, è il libro che papa Francesco ha voluto donare a tutti i vescovi italiani durante l’incontro a porte chiuse avvenuto ieri in Vaticano.
Attraverso questo dono il Pontefice ha voluto ribadire quanto gli stia a cuore la sorte dei migranti e la necessità che le scelte della politica e l’impegno della comunità cristiana siano improntate prima di tutto all’ascolto.
Ibrahima Balde, partito tredicenne dalla Guinea, è emigrato tre volte: due in Africa e una in Europa. Ha raccontato la sua storia al poeta spagnolo Amets Arzallus Antia. Ibrahima, infatti, non era in grado di leggere né scrivere. «Non ho avuto il tempo di imparare a scrivere. Se mi dici Aminata, so che inizia con la A, se mi dici Mamadou, penso che inizi con la M. Però non chiedermi di costruire una frase intera, perché appena comincio mi ingarbuglio», dice Ibrahima. Figlio di un venditore di ciabatte, alla morte del padre quando lui era ancora bambino, era emigrato all’interno del continente africano, ma le condizioni di povertà estrema della famiglia avevano costretto un altro fratello a percorre le vie desertiche per raggiungere l’Europa. E quando del “fratellino” si perdono le tracce, Ibrahima sente di avere un solo dovere: ritrovarlo.
Grazie al suo racconto è possibile ascoltare ad altezza d’uomo cos’è la vita da migrante, il traffico di esseri umani, la prigionia, le sevizie, gli abusi della polizia libica addestrata e finanziata da Paesi come l’Italia. «I torturati, uomini e donne, erano gente come me. Nessuno - dice Ibrahima all’amico poeta - aveva fatto niente per trovarsi lì». C’era chi fuggiva dalla guerra, chi dalla fame, chi inseguendo un sogno: «Ma a quelli che ci torturavano tutto questo non interessava».