In fila con i rifugiati. Quasi fosse uno di loro. Solidale fino in fondo con le parole e con i gesti. Perché «la solidarietà – ha sottolineato – non è una parolaccia». E coloro che hanno questo status sono uomini e donne da «servire, accompagnare difendere». Sono anzi «la carne di Cristo». Dunque per aiutarli vale la pena anche di compiere scelte coraggiose e inconsuete: «Carissimi religiosi e religiose – dice a un tratto il Papa – i conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e guadagnare soldi. I conventi vuoti non sono nostri, sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati».Quello che Francesco trascorre insieme con gli ospiti e i volontari del Centro Astalli, sede italiana del Servizio dei Gesuiti per i rifugiati è un pomeriggio piovoso e grigio. Ma per molti di loro la presenza del Papa è davvero come un raggio di sole, che riscatta da tante amarezze, sofferenze, incomprensioni. Il Pontefice prima ascolta, poi parla. Ascolta le storie di Beatrice del Congo e di Frank e Teresa, arrivati dal Camerun quando lei era incinta di otto mesi di Adam, che ora è lì con mamma e papà. Le storie di Maniuna dell’Etiopia e di Was della Somalia, fuggiti per motivi politici, di Isabel della Colombia, scampata alla prigionia della guerriglia, e di Kaiser, giornalista cristiano del Pakistan perseguitato per la sua fede. E quando parla, nella grande e bella Chiesa del Gesù gremita da 500 persone, quei volti e quelle storie diventano parole di speranza. «Non dobbiamo avere paura delle differenze», afferma il Pontefice. Occorre invece «tenere sempre viva la speranza, aiutare a recuperare la fiducia». In sostanza «mostrare che con l’accoglienza e la fraternità si può aprire una finestra sul futuro, anzi, più che una finestra una porta».Francesco si rivolge a Roma e al mondo intero, contemporaneamente. «Questa visita – commenterà al termine il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi – va letta in continuità con la visita a Lampedusa. E il discorso del Papa è molto importante». L’importanza in effetti sta tanto nella parte di denuncia quanto in quella di proposta. «Roma – nota, infatti il Pontefice – dopo Lampedusa e gli altri luoghi di arrivo, è la seconda tappa». Essa «dovrebbe essere la città che permette di ritrovare una dimensione umana, di ricominciare a sorridere». E invece spesso queste persone «sono costrette a vivere in situazioni disagiate, a volte degradanti, senza la possibilità di iniziare una vita dignitosa, di pensare a un nuovo futuro». In altri termini Francesco invita a «servire», cioè «a stabilire prima di tutto relazioni umane, di vicinanza, legami di solidarietà». «Solidarietà – sottolinea il Pontefice – questa parola che fa paura per il mondo più sviluppato. Cercano di non dirla. È quasi una parolaccia per loro. Ma è la nostra parola. Servire significa riconoscere e accogliere le domande di giustizia, di speranza, e cercare insieme delle strade, dei percorsi concreti di liberazione». Commenterà più tardi a tal proposito, padre Giovanni La Manna, direttore del Centro Astalli: «La legge italiana ha spacciato l’accoglienza come un reato, criminalizzando l’arrivo in Italia di profughi che fuggono dalle guerre, oggi dal conflitto in Siria». Francesco indica invece un altro percorso. «La sola accoglienza non basta – afferma –. Non basta dare un panino se non è accompagnato dalla possibilità di imparare a camminare sulle proprie gambe. La misericordia vera chiede a noi Chiesa, a noi città di Roma, alle istituzioni che nessuno debba più avere bisogno di una mensa, di un alloggio di fortuna, di un servizio di assistenza legale per vedere riconosciuto il proprio diritto a vivere e lavorare».Il Papa era giunto all’ingresso del Centro alle 15.30, mentre era in corso l’accesso alla mensa dei frequentatori del Centro. Sceso nei locali del refettorio aveva salutato rifugiati e volontari, fermandosi ad ascoltare le testimonianze di una ventina di ospiti e intrattenendosi successivamente in preghiera nella cappellina del Centro. Infine si era spostato nell’attigua Chiesa del Gesù.Visita semplice e senza scorta, quella di Francesco. Che all’arrivo ha trovato ad accoglierlo il cardinale vicario, Agostino Vallini e il vescovo ausiliare Matteo Zuppi, il provinciale d’Italia dei gesuiti, padre Carlo Casalone e altri rappresentanti della congregazione religiosa cui anche il Papa appartiene. In chiesa il Pontefice ha ricevuto il saluto di padre La Manna, e di due rifugiati, il sudanese Adam e la siriana Carol. Proprio quest’ultima, con parole accorate ha descritto la tragedia del suo Paese. «I nostri ragazzi – ha detto – sono stati tutti arruolati o uccisi in una guerra per noi senza senso. Dovranno passare almeno 50 anni prima che in Siria si possano avere nuove generazioni. Siamo un Paese senza futuro». Ma in Italia, aveva aggiunto, «non vogliamo essere di peso». Il Papa, citando i passaggi più significativi dei due saluti nel suo discorso, aveva sottolineato «il diritto» dei rifugiati all’integrazione e a sentirsi parte attiva della società che li ha accolti. «Accompagniamo noi questo cammino?», era stato il suo interrogativo, volto a spronare le coscienze.Durante la visita, infine, è stato ricordato anche padre Pedro Arrupe, fondatore del Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, sepolto nella Chiesa del Gesù, alla cui tomba il Papa, accompagnato da due rifugiati, ha portato un mazzo di fiori. Francesco è andato via intorno alle 17, non senza un ultimo saluto pronunciato a braccio: «Grazie per la testimonianza, per l’aiuto, per le vostre preghiere, per il desiderio, la voglia di andare avanti, di lottare e andare avanti. Grazie per difendere la vostra, la nostra dignità umana». Quella dignità che nessun uomo può perdere.