Chiesa

L'INTERVISTA. Lo scrittore Lins e la sua Cidade «Scuola e sanità mezzi di riscatto»

Lucia Capuzzi sabato 27 luglio 2013
​Per entrare nell’elegante condominio di Pompeya, nella zona chic di San Paolo, si deve aspettare che l’addetto alla sicurezza verifichi l’identità del visitatore. Poi si viene ammessi in un’enorme hall al pianterreno. «Le piace? Anche a me. Eppure qualche volta ho saudade (nostalgia) dei pranzi improvvisati tra vicini di Cidade de Deus. Quella che non rimpiango è la condizione di favelado». Paulo Lins lo è stato per trent’anni. Prima di laurearsi e cominciare a insegnare all’Università. «Avevo già cambiato "status sociale"», racconta quando ha pubblicato il romanzo dal titolo “Cidade de Deus”, che lo ha catapultato sulla scena letteraria nazionale e internazionale. Dal libro, edito in Italia da Mondadori, è stato tratto nel 2002 il pluripremiato film di Fernando Meirelles. A quel punto, Cidade de Deus è diventata sinonimo di tutte le favelas di Rio de Janeiro.Non è comune che un ragazzo cresciuto a Cidade de Deus abiti in un palazzo come questo..Infatti non ne conosco… Si guardi in giro: vede altri neri in questo condominio? A parte il portiere, intendo…In effetti la popolazione del quartiere è decisamente bianca. Nel multietnico Brasile, dunque, ancora la povertà ha un contenuto razziale?Eccome. La maggior parte degli abitanti delle favelas qui a San Paolo - dove mi sono trasferito da 4 anni - come a Rio e in tutte le città, è di origine indigena o nera. A quasi due secoli dall’abolizione della schiavitù, dunque, il razzismo è un dato di fatto. Certo, la discriminazione non avviene tanto su base etnica quanto economica e sociale. Quando sanno che sono uno scrittore, smetto di essere nero.E quando non lo sanno?Sono solo un nero che si aggira nei quartieri alti. Se entro in un ristorante, tanti si girano con aria interrogativa. Si chiedono che ci faccia. Pensano che sia un calciatore o un sambista. Che cos’altro potrebbe fare un nero?E, invece, lei è uno scrittore. Come ha fatto a diventarlo e ad "uscire" dalla «favela»?Ho studiato. Grazie a mio fratello che con il suo lavoro di manovale mi pagava la scuola. Così ho potuto frequentare il liceo e l’università e leggere tantissimi libri. Però non so giocare a calcio né suonare il samba: non avevo tempo di imparare. L’ambiente della «favela» non doveva offrire molti stimoli per studiare...I bambini della favela sono come tutti gli altri. Prima, non vorrebbero mai andare a scuola. Una volta che ci mettono piede, però, non vogliono più andar via. Il punto è offrire a questi piccoli un’istruzione di qualità perché possano inserirsi nel mercato del lavoro.Che cosa significa essere un «favelado»?Significa subire la discriminazione della gente delle altre zone della città, significa morire perché l’ospedale pubblico è lontanissimo e di pessima qualità. Significa non poter accedere a determinate professioni non per mancanza di capacità ma perché l’educazione disponibile è infima.È migliorata la situazione delle «favelas» di Rio dopo il 2008 con la “pacificazione”?La violenza si è fatta meno evidente. Non si vedono più trafficanti armati in giro per le strade. La criminalità, però, è tutt’altro che sconfitta. Non dimentichiamoci che questa è una conseguenza della terribile diseguaglianza sociale. E la disparità non è stata eliminata.Quaranta milioni di persone, però, hanno potuto lasciare le baraccopoli negli ultimi dieci anni…Il punto non è andar via. È poter migliorare la propria condizione. E per questo occorrono servizi sociali efficienti, soprattutto scuola e sanità.Eppure Cidade de Deus un po’ le manca…Perché una favela non è solo emarginazione. È una comunità straordinariamente solidale. Proprio grazie a questa solidarietà sopravvive alle difficoltà, con allegria. Le favelas sono piene di musicisti, pittori, narratori anonimi. Sono quanto di più artistico ci sia in Brasile. E l’arte, insieme alla religione, è la cosa più importante per l’uomo. Sa, anche se non sono credente, concordo con Octavio Paz.