Chiesa

Reportage. Palmasola, viaggio nel carcere incubo

Lucia Capuzzi sabato 11 luglio 2015
L’enorme scritta interrompe il monotono rincorrersi di mattoni scuri. I caratteri rossi spiccano sul fondo bianco: “Oggetti proibiti”. Poi, in nero, segue una lunga lista che va dai telefoni cellulari, alle bevande alcoliche, ad armi ed esplosivi. Perché nessuno resti escluso dal messaggio, il contenuto è riassunto in una serie di disegni. La gente la chiama la “pubblicità”. Perché – dicono – il cartello offre appena una sintesi di tutto quello si può trovare all’interno, oltre la cancellata verde, che segna la fine di Santa Cruz. Oltrepassata la “frontiera” si entra nella “città” di Palmasola, in cui risiedono 5. 361 detenuti – il 36 per cento del totale nazionale –, le famiglie, gli agenti, i funzionari. Il maggior centro penitenziario della Bolivia. Una piccola metropoli carceraria in perenne attività. Il confine tra prigione e città è, al contempo, blindato e permeabile. Un controsenso che ho potuto verificare. Per entrare nel complesso occorre un’autorizzazione dell’Amministrazione penitenziale. Nei giorni precedenti alla visita di papa Francesco, le richieste dei media vengono rifiutate «per ragioni di sicurezza». Si può, però, percorrere un’altra via. Mi presento al cancello verde di Palmasola lunedì, l’ultimo giorno prima del blocco totale degli ingressi agli esterni. Provo ancora a chiedere. Il “no” è quasi scontato. Nulla impedisce, però, a chi vuole entrare di mettersi in fila con i parenti, sotto la tettoia di metallo, stretti dalla calca e dal passamano di metallo. La “porta verde” si apre a intervalli intermittenti: ogni volta la fila sussulta compatta per guadagnare posizione. Con un po’ di pazienza, arriva il momento dell’entrata. Nessun controllo delle borse, più o meno voluminose, nemmeno dei documenti. Basta indicare il nome del detenuto a cui si fa visita in un apposito gabbiotto: in cambio si riceve un timbro sulla pelle. Il “lasciapassare”, dicono le mendicanti che, dall’altra parte del cancello, lo eliminano con un panno umido in cambio di pochi spiccioli. Non è, però, indispensabile nemmeno questo: una volta varcata la soglia, si può camminare per i padiglioni senza che nessuno chieda spiegazioni. Il primo è quello delle donne, circa 400. Una rete metallica le separa dal resto del complesso, dove risiedono gli uomini. Passare quella rete per una notte – dicono fonti ben informate – costa 15 dollari. «C’è un problema di controllo a Palmasola, come nel resto delle carceri boliviane. A vigilare su oltre 5mila reclusi ci sono appena 16 funzionari. Questi hanno, dunque, dovuto delegare ai 300 poliziotti, a loro volta impreparati per un simile incarico. Dal 2006, dunque, si è optato per un sistema “misto”, in cui i detenuti eleggono dei rappresentanti, chiamati “reggenti”, che collaborano nelle funzioni di “governo” e sicurezza. Il meccanismo da una parte ha ridotto la violenza. Dall’altra, le opportunità di corruzione sono infinite», ci spiegherà poi Ramiro Llanos, fino a due anni fa responsabile dell’Amministrazione penitenziaria. Nell’autunno del 2013, Llanos ha dato le dimissioni per creare il Cenvicruz, una struttura amministrata solo da civili. «Solo penitenziari più piccoli, gestiti da personale civile specializzato, possono essere davvero centri di recupero», sottolinea. Una strada di ciottoli e fango porta al Pc-4, il cuore di Palmasola, il cosiddetto “regime aperto”, dove sta la maggior parte dei reclusi. E dove ieri Francesco ha portato il suo messaggio di misericordia e speranza. Una cittadella terribilmente stratificata. Mini-appartamenti si sovrappongono a baracche. È solo una questione di soldi: chi li ha, può costruirsi la propria casa come preferisce. Gli altri si adattano. I più poveri condividono stanzoni con materassi sul pavimento. Anche per quello si paga. A Palmasola tutto ha un prezzo. Appena entrati si versano tra 500 e mille dollari per la propria incolumità, 120 dollari per essere esonerati dal lavoro di pulizia. Poi c’è la tassa per il consumo di alcol, di droga. In media, al mese, ogni detenuto sborsa tra i 100 e i 150 dollari alla “rete” formata tra reggenti e poliziotti. «È una miniera d’oro. Non “conviene” velocizzare la giustizia. Ecco perché l’84 per cento dei reclusi è in attesa di giudizio», conclude Llanos. Il che spiega perché in una struttura costruita per 800 persone vivano in oltre 5mila. Ai reclusi, poi, si aggiungono mogli, mariti, figli. È la presenza dei familiari – in particolare di 160 bimbi – uno degli aspetti più controversi del sistema-Palmasola. «La legge consente alle mamme di tenere con loro i piccoli fino a sei anni. Questi possono frequentare l’asilo vicino al penitenziario», spiega Ninoska Ayala Flores, capo nazionale del Programma detenuti di Capacitación y derechos ciudadanos. In genere, però, i bambini restano ben oltre. «Perché? Perché non hanno altro posto dove lasciarli», afferma Verónica Bustillos direttore del “Centro de apoyo integral carcerario y comunitario” (Caicc), che da 21 anni accompagna a scuola i bimbi delle prigioni di Cochabamba. La maggior parte delle detenute viene dall’interno. «Non ha parenti vicini e affidabili, i padri le hanno abbandonate. Non sempre, poi, gli istituti sono meglio del carcere. Non è solo un fatto di strutture. Nessuno delle migliaia di piccoli con cui ho lavorato avrebbe lasciato la madre per una stanza migliore. Il problema, semmai, è garantire ai bimbi istruzione, sostegno, occasioni di svago fuori», dice Verónica. Affermazioni forse choccanti per l’Occidente. Ma qui siamo «nell’altro Occidente latinoamericano», dove nulla è bianco o nero. Lo stesso discorso vale per la presenza dei familiari: questa, da una parte, crea problemi di spazio, convivenza e sicurezza, dall’altra è un prezioso sostegno per i reclusi, quasi tutti in attesa infinita di giudizio. A Palmasola, del resto, tutto è un gioco di paradossi. L’ultimo: prima di uscire dal penitenziario, chiedo di nuovo l’autorizzazione a visitare in futuro la struttura. «Niente da fare – risponde il responsabile –. Hasta luego».