Il ricordo. Padovese, il vescovo ucciso in Turchia, raccontato dal suo successore
Il vescovo Luigi Padovese ucciso in Turchia 10 anni fa
Quel giardino il vescovo Luigi Padovese lo conosceva bene. È nel palazzo vescovile di Iskenderun, la città della Turchia meridionale che in italiano mutua il nome dal greco diventando Alessandretta e che ospita la sede del vicariato apostolico d’Anatolia. Qui il cappuccino d’origine milanese è stato vescovo per quasi sei anni. E qui è stato assassinato il 3 giugno 2010 dal suo autista al grido di Allahu Akbar («Allah è grande »). Un delitto su cui non è mai stata fatta piena luce. In una piccola teca della cappella sono conservate la stola, un messale, la stilografica e un paio di occhiali appartenuti al presule “martire”. Il piccolo parco caro a Padovese ha fatto da cornice mercoledì alla Messa di suffragio per i dieci anni dalla sua morte. «È stata una celebrazione per pochi intimi, prendendo tutte le dovute misure anti-Covid. Infatti in Turchia le chiese riapriranno ufficialmente solo il 14 giugno », racconta il vescovo Paolo Bizzeti, gesuita 72enne d’origine fiorentina che di Padovese è il successore. Dal 2015, per volere di papa Francesco. Perché la sede è rimasta vacante per cinque anni, dopo l’uccisione del pastore con il sorriso. «L’emergenza sanitaria – racconta Bizzeti – ci ha imposto di sospendere il grande convegno per ricordare Padovese che avevamo programmato per oggi e anche le celebrazioni in suo onore previste per domani. Ma non sono state cancellate: le abbiamo rimandate non appena la situazione lo consentirà». Bizzeti firma anche la prefazione al libro Testimone del Buon Pastore con testi inediti di Padovese, curato da Maria Grazia Zambon.
Il vescovo Paolo Bizzeti, vicario apostolico d'Anatolia - Avvenire
Eccellenza, qual è l’eredità del suo predecessore?
Qui la nostra gente conserva un bellissimo ricordo di lui. Era un uomo affabile che testimoniava con la vita il suo amore alla Parola e ai padri della Chiesa che sono di casa in questo angolo della Turchia, dove la Chiesa delle origini ha le sue radici.
Padovese non ha mai voluto lasciare una terra così complessa.
È vero. Pur essendo consapevole di correre seri pericoli, è rimasto in mezzo al suo popolo. Soprattutto dopo l’assassinio del sacerdote fidei donum don Andrea Santoro nel 2006, era chiaro che chi occupava una posizione come la sua correva rischi concreti. Ne era consapevole. Lo ha detto anche durante il funerale di don Andrea e lo ha ripetuto in altre occasioni. Ecco, ancora oggi Padovese ci dice che non possiamo lasciarci vincere dalla paura e che il male non avrà mai l’ultima parola.
Il delitto ha ancora aspetti non chiariti. Padovese si è speso per il dialogo con l’islam. Quanto è difficile essere cristiani in un Paese a maggioranza musulmana?
In Turchia gran parte della popolazione ha buoni rapporti con le minoranze religiose. Vale lo stesso per il governo. Il vero problema sta nei gruppuscoli di ignoranti e fondamentalisti che non gradiscono una presenza cristiana. Ne è un esempio simbolico i continui appelli per far tornare a essere moschea la chiesa di Santa Sofia. E la scorsa settimana è accaduto che uno squilibrato sia entrato in una chiesa armena a Istanbul danneggiando il crocifisso. Si tratta di persone prigioniere di una mentalità estremistica che se la prendono anche con gli stessi musulmani accusati di collaborazionismo. E non hanno per niente digerito il Documento sulla fratellanza umana di Abu Dhabi. Di fronte a intransigenti fuori controllo non sappiamo mai che cosa aspettarci.
Uomo di comunione, Padovese è stato animato da spirito ecumenico. Intense le relazioni intessute con la Chiesa ortodossa, come dimostra l’amicizia con Bartolomeo I. E oggi?
Qui si tocca con mano l’ecumenismo di base, quello che si realizza ogni giorno nelle famiglie o attraverso iniziative comuni. Inoltre ci sono splendidi esempi di collaborazione istituzionale: ad Antiochia, per citare un caso, abbiamo unificato la data della Pasqua. Segni che definirei di avanguardia.
Il vescovo Luigi Padovese ucciso in Turchia 10 anni fa - Immagine tratta dal sito centroculturalepadovese.com
Com’è cambiato il volto della Chiesa in Turchia in questi dieci anni, dopo l’assassinio di Padovese?
Due fattori sono intervenuti. Il primo è la diffusione di Internet che ha alimentato la curiosità verso il cristianesimo. Così non sono poche le persone che vengono nelle parrocchie a chiedere informazioni. Non c’è alcuna azione di proselitismo. Ma il web ha permesso di avere sulla nostra fede notizie non distorte come invece si leggono in certi libri di scuola pieni di pregiudizi. Fra coloro che bussano alle porte alcuni intraprendono un cammino di catecumenato. Il secondo elemento è legato all’arrivo dei rifugiati da Iraq, Siria, Iran, Afghanistan o Africa: sono i nuovi cristiani delle nostre comunità che si affiancano ai fedeli locali. Grazie ai migranti la Chiesa in Turchia ha visto raddoppiare i suoi numeri. La maggioranza di loro fugge da guerre e persecuzioni. E considera la Turchia un luogo di transito per arrivare in Occidente che però ha chiuso totalmente le sue frontiere. Siamo, quindi, una Chiesa vivace, piena di nuove leve, ma non abbiamo strutture e operatori pastorali: non è possibile aprire chiese, cappelle o centri culturali; e la somma di sacerdoti, religiose e religiosi si è più che dimezzata nell’ultimo decennio perché dalle nazioni che ci donavano i missionari non giunge quasi più nessuno. Dal punto di vista socio-politico, invece, il clima è più disteso.
Come i cristiani d’Occidente possono essere vicini ai fratelli del Medio Oriente?
Anzitutto conoscendo meglio il cristianesimo di queste aree. Come diceva monsignor Padovese, se non ci si conosce non è possibile neppure volersi bene. C’è ad esempio il sito degli “Amici del Medio Oriente” (www.amo-fme.org) che propone iniziative come un corso di introduzione all’iconografia che terrò a fine agosto. Poi è essenziale la preghiera che ci unisce. E non può mancare l’aiuto concreto. Il sostegno a una Chiesa sorella povera è la lezione che ci viene dal cristianesimo delle origini.
Condannato l'autista killer. Ma resta misterioso il movente dell'uccisione del vescovo Padovese
Luigi Padovese è stato «un vero costruttore di riconciliazione e di pace, a partire dal rispetto reciproco e dall’accoglienza fraterna». Le parole del cardinale Dionigi Tettamanzi risuonano nel Duomo di Milano dove il 14 giugno 2010 si tiene il funerale del vescovo cappuccino d’origine ambrosiana. Ucciso pochi giorni prima, il 3 giugno 2010, a Iskenderun nel sud della Turchia. Perché, come riporta la stampa turca, era una delle personalità più in vista e stimate del Paese. Infatti dal 2004, per volontà di Giovanni Paolo II, era vicario apostolico d’Anatolia. «L’amore è più forte della morte», aveva detto Padovese riferendosi alla tragedia di don Andrea Santoro, il sacerdote fidei donum assassinato nel 2006 a Trebisonda mentre è raccolto in preghiera, un angolo della sua “diocesi”.
Nato nel 1947 a Milano, Padovese sceglie l’Ordine dei frati minori cappuccini. Patrologo di fama internazionale, è docente alla Pontificia Università Antonianum di Roma ricoprendo per diciassette anni l’incarico di preside dell’Istituto francescano di spiritualità. Uomo di comunione, traduce nel concreto quella che papa Francesco chiamerà la “cultura dell’incontro”. Innanzitutto coinvolgendo nei suoi percorsi accademici persone di fedi diverse e non credenti. Quindi promuovendo il dialogo ecumenico in particolare con la Chiesa ortodossa: significativa, in questo senso, l’amicizia con Bartolomeo I. E poi rivelandosi grande tessitore di relazioni interreligiose, soprattutto con il mondo islamico.
Sa, comunque, di essere un bersaglio. «Tra tutti i Paesi di antica tradizione cristiana – scrive nel 2005 – nessuno ha avuto tanti martiri come la Turchia». Viene ucciso a 63 anni nella residenza estiva del vicariato apostolico dal suo autista Murat Altun. Ancora restano oscuri molti aspetti della vicenda a cominciare dal movente, visto che per anni il vescovo ha aiutato sia Altun sia la sua famiglia. Subito dopo il delitto il giovane confessa che Padovese rappresenta il diavolo, poi ritratta e si dice pentito invocando l’infermità mentale. Sarà condannato a quindici anni di carcere.