Chiesa

Santità. Óscar Arnulfo Romero: il martire del Salvador

Lucia Capuzzi mercoledì 7 marzo 2018

Foto d'archivio Ansa

"Accetto ovviamente di cedere, per il bene della pace, in tutte quelle cose accidentali in cui si può cedere, ma non nelle convinzioni di fedeltà al Vangelo e alle linee nuove della Chiesa riguardo al mio amato popolo".

In quei giorni "di marzo e d’agonia" – come scriverà il sacerdote e poeta Pedro Casaldáliga –, gli ultimi della sua vita terrena, Óscar Arnulfo Romero torna spesso sulla questione. A questa frase, scritta sul suo Diario l’11, ne aggiunge un’altra, appena due giorni dopo: “Non posso certamente cedere nelle cose essenziali, quando sia in gioco la fedeltà al Vangelo, alla dottrina della Chiesa e, in particolare, questo popolo così paziente, che non riescono a comprendere”.

In queste tre parole – Vangelo, Chiesa e popolo di Dio – è racchiusa l’essenza della santità di Romero. Una santità che le lingue degli ultimi dell’America Latina già proclamavano da decenni. Gli invisibili del Continente – recita ancora la poesia – l’avevano “messo nella sua gloria del Bernini” fin dal 24 marzo 1980, quando uno sparo di un killer assoldato dalla dittatura, sostengono gli storici, fermò il cuore dell’arcivescovo, intento a celebrare la Messa. "San Romero nostro", bisbigliavano prima, durante i dodici anni di guerra feroce (tra il 1980), e ora, nel mezzo di una violenza bellica non dichiarata, ma parimenti brutale.

Il sussurro ieri s'è tramutato in grido condiviso, dirompente, liberatorio, all’annuncio della svolta nel processo canonico. La sera del 6 marzo, papa Francesco ha autorizzato la pubblicazione del decreto che sancisce il miracolo per intercessione di Óscar Romero. Per quest’ultimo, martire in odio alla fede, beatificato il 23 maggio 2015, si spalanca la via della canonizzazione: la data sarà annunciata nei prossimi mesi.

"Non importa, aspettiamo. Ormai Dio ha esaudito la nostra preghiera", ripeteva ieri il popolo romeriano, che ha custodito la memoria dell’arcivescovo assassinato anche nei decenni più duri del conflitto e del dopoguerra, a dispetto dell’ostracismo delle autorità di allora e della diffidenza di alcuni settori della Chiesa. Quel martirio post mortem a cui più di una volta si è riferito lo stesso Francesco. Ora, però, la Santa Sede ha riconosciuto la "santità scomoda" di Romero, che unisce in modo indissolubile Vangelo, Chiesa e fedeli affidati alla sua cura di pastore. Tre amori a cui monsignor Óscar ha scelto di restare fedele, a costo della vita. E a costo di dover far violenza alla suo stesso carattere. Non aveva la stoffa dell’eroe, Romero, come sottolinea Alberto Vitali in “Óscar Romero, pastore di agnelli e di lupi” (Paoline).

Nato a Ciudad Barrios nel 1917 era un uomo di provincia: timido, impacciato, di formazione conservatrice, cresciuto nel rispetto dell’autorità. Da sacerdote e, poi, da vescovo ausiliare di San Salvador – lo nominò Paolo VI nel 1970 -, guardava con sospetto quei settori ecclesiastici che, sull’onda del Concilio, si impegnavano nella promozione di un Paese più fraterno. Lo stesso rinnovamento della pastorale, promosso dall’allora arcivescovo della capitale, Luis Chávez y González, uno dei protagonisti della Conferenza di Medellín, lo vedeva dubbioso.

È stato il contatto quotidiano con i fedeli, a cui Romero, da buon pastore, non s’è mai sottratto, a fargli prendere coscienza dell’iniquità del sistema sociopolitico dell’epoca, che “scartava” la maggior parte dei cittadini. Con e dal popolo di Dio, monsignor Óscar ha imparato a leggere il Vangelo nel suo tempo. E, in nome di un amore profondo per Gesù e la Chiesa, ha deciso di agire di conseguenza.

Un percorso lungo e faticoso. Cominciato quando era vescovo della poverissima diocesi di Santiago de María, tra il 1975 e il 1977, prima di tornare nella capitale, come successore di monsignor Chávez. Se è, dunque, riduttivo parlare di un mutamento brusco dopo l’omicidio dell’amico gesuita, padre Rutilio Grande, il 12 marzo 1977, è indubbio che tale tragedia gli fece maturare l’urgenza di una parola chiara, da parte dei rappresentanti della Chiesa, su quel momento sanguinoso. E, così, il pacato Romero divenne "profeta suo malgrado", voce dei senza voce. Tanto di intimare ai militari, dal pulpito, di “cessare la repressione”. Era il 23 marzo 1980. Il giorno dopo l’avrebbero ucciso proprio mentre diceva: "Che questo corpo immolato e questo sangue sacrificato per gli uomini ci spinga a dare anche il nostro corpo e il nostro sangue al dolore e alla sofferenza come Cristo; non per noi stessi ma per dare al nostro popolo frutti di giustizia e di pace".