Quando alcuni lo esortavano a “non esporsi”, a non assumere posizioni troppo esplicite nei confronti dei dittatori che si alternavano al potere, rispondeva: «Molti lasciano la Compagnia perché si innamorano. Devo forse lasciare anche io per essermi innamorato di questo popolo che mi onora con la sua fiducia?». Gli amici hanno, dunque, inciso sulla sua tomba un’unica frase: «Assassinato per aiutare il popolo». «A Lucho sarebbe piaciuto», dice ad
Avvenire il gesuita Xavier Albó.“Lucho” è il nomignolo con cui padre Xavier continua a chiamare il confratello Luis Espinal, rapito, torturato e ucciso con 17 colpi di pistola a El Alto, la notte tra il 21 e il 22 marzo di 35 anni fa. Ad agire un gruppo di sgherri del dittatore Luis García Meza per cui la difesa appassionata degli ultimi e della libertà, portata avanti dal sacerdote-giornalista-critico cinematografico con la penna e la parola equivaleva alla più pericolosa minaccia. Perché Luis Espinal non sfidava il regime con le armi, bensì con il Vangelo. Era, dunque, necessario dargli una lezione esemplare perché scoraggiare quanti nella Chiesa volessero seguire il suo esempio. Il corpo massacrato di “Lucho” fu abbandonato al chilometro 8 della strada per Chacaltaya, dove ora c’è l’autostrada per La Paz. Là ieri si è recato ieri il Papa, appena atterrato in Bolivia: con una preghiera silenziosa sul luogo del brutale omicidio, il gesuita Francesco ha voluto iniziare questa tappa del viaggio. Un omaggio certo al confratello Espinal ma anche ai tanti testimoni della Chiesa latinoamericana dell’opzione per i poveri che, dopo la scelta forte dei vescovi a Medellín, hanno dato la vita per la giustizia.«Quando lo trovarono, io ero fuori città. Non riuscii a tornare nemmeno per il funerale a cui parteciparono 70mila persone», afferma padre Xavier, amico fraterno di “Lucho”. «Dal 6 agosto 1968, quando Espinal lasciò la Catalogna per la Bolivia abbiamo vissuto nella stessa comunità e, per lungo periodo, anche nella stessa stanza», aggiunge. Mentre la folla dava l’ultimo addio a Lucho, il 24 marzo, a 4mila chilometri di distanza, a San Salvador, un sicario legato al governo colpiva al cuore con un proiettile l’arcivescovo martire Óscar Arnulfo Romero, beatificato lo scorso 23 maggio. Forse per questo richiamo di date e vicende personali, molti chiamano Luis Espinal il “Romero boliviano”. «Lucho era boliviano per scelta. Era nato vicino a Manresa, in Spagna, dove avvenne la conversione di sant’Ignazio.In Bolivia, ha trascorso gli ultimi 12 anni della sua vita, arrivando a naturalizzarsi. Non conobbe mai personalmente monsignor Romero. Entrambi, però, sono stati assassinati per essersi messi dalla parte degli ultimi. E, in entrambi i casi, a ucciderli sono state persone che formalmente si dicevano cristiane senza, però, accettare le implicazioni concrete della fede», aggiunge padre Xavier che nel 1977-1978 partecipò insieme a “Lucho” ai 19 giorni di sciopero della fame in arcivescovado in solidarietà con le mamme minatrici. Queste ultime, tra cui la nota sindacalista Domitila Chungara, reclamavano il diritto ad organizzarsi e ad avere condizioni di lavoro più degne.«L’arcivescovo di La Paz, Jorge Manrique, ci sostenne. Quando i militari cercarono di farci sgomberare, minacciò di chiudere tutte le chiese», sottolinea padre Albó. Il digiuno costrinse il governo a cedere. Padre Espinal, però, ormai era segnato. «Riceveva continue minacce, sapeva che potevano ammazzarlo – conclude l’amico –. Minimizzava sempre. Pochi giorni dopo l’omicidio abbiamo trovato tra i suoi scritti questa poesia. Che riprende una delle “preghiere a bruciapelo”, scritte in gioventù. E rappresenta il suo testamento: “Il Paese non necessità martiri ma costruttori. (…) E se questi ultimi, un giorno, saranno chiamati a dare la vita, lo faranno con la semplicità con cui si assolve a un impegno in più e senza gesti melodrammatici”».