Il neo-cardinale. Nemet: io, vescovo del dialogo fra Est e Ovest
Il futuro cardinale Ladislav Nemet con il patriarca ortodosso serbo Porfirije
Secondo le categorie della geopolitica, incombe ancora sui Balcani l’incubo della Grande Serbia. E il barometro continua ad annunciare “burrasca” fra Belgrado e due Paesi limitrofi: il Kosovo che, secondo lo Stato da cui si è dichiarato indipendente nel 2008, resta una provincia da riannettere; e il Montenegro che accusa la nazione vicina di mire espansionistiche. Tensioni che, fra alti e bassi, segnano il quotidiano di dieci milioni di abitanti. Se, però, il punto di vista diventa quello della Chiesa cattolica, allora Serbia, Montenegro, Kosovo e Macedonia del Nord vivono già nel segno della fraternità. Come testimonia la Conferenza episcopale dei Santi Cirillo e Metodio che riunisce i vescovi delle quattro realtà nazionali. «Mettiamo in pratica ciò che tutta l’area dei Balcani desidera: vivere in pace e in armonia gli uni con gli altri e gli uni accanto agli altri. Non abbiamo la bacchetta magica per cambiare l’intera regione, ma possiamo essere profezia di una nuova coesistenza», spiega l’arcivescovo Ladislav Nemet. Il presule guida l’arcidiocesi di Belgrado e presiede la Conferenza episcopale internazionale dei Santi Cirillo e Metodio. Ed è uno dei nuovi ventuno cardinali che saranno creati da papa Francesco il 7 dicembre.
L’arcivescovo di Belgrado e futuro cardinale Ladislav Nemet - Arcidiocesi di Belgrado
Viene da chiamarlo un “globetrotter” perché parla sette lingue ed è stato nelle Filippine e in Ungheria, in Italia e in Austria, prima di tornare da vescovo nella sua terra d’origine, la Serbia, dove è nato 68 anni fa. Una berretta senza confini, sui passi del carisma missionario della Società del Verbo Divino in cui Nemet è entrato a 21 anni grazie a uno degli zii materni. «Quando seppe che volevo diventare prete - racconta ad “Avvenire” - mi rivelò di essere un verbita, ma clandestino perché a quel tempo in Ungheria gli ordini religiosi erano stati messi al bando. Non dimenticherò mai quel colloquio che ha segnato per sempre la mia vita. Del resto ancora oggi mi sento innanzitutto un missionario del Verbo Divino». E adesso anche una berretta-ponte: fra Est e Ovest dell’Europa; e fra il cristianesimo orientale e quello occidentale in una nazione dove la mentalità prevalente (insieme con le sue forze politiche) vuole che ogni serbo debba essere di per sé ortodosso. La religione del 90% della popolazione. Eppure, quando il Pontefice ha annunciato la porpora per Nemet, è arrivato anche il messaggio affettuoso del capo della Chiesa ortodossa serba, il patriarca Porfirije, che ha definito la scelta di Francesco un «riconoscimento per la nostra patria». «Viviamo in un’epoca dove i rapporti fra le nostre Chiese sono ben più positivi rispetto a 30 anni fa - sottolinea l’arcivescovo -. Anche Porfirije gioca un ruolo importante e, con il suo stile aperto, la sua esperienza multiculturale e la sua gentilezza, ha fatto molto perché a noi cattolici sia permesso di vivere in modo più sicuro e sereno in Serbia». Un avvicinamento che ha lasciato ipotizzare anche il primo viaggio di un Papa nel Paese, dopo l’invito delle autorità di Belgrado. Ma davanti ai giornalisti il futuro cardinale mette le mani avanti soprattutto considerando certe titubanze ortodosse: «Il Papa non si recherai mai in una nazione dove le altre realtà religiose non sono d’accordo. Ma la speranza della visita c’è tutta».
Eccellenza, la guerra in Ucraina ha congelato il dialogo ecumenico con la maggioranza del mondo ortodosso?
«A livello globale è una visione condivisibile, ma non in Serbia. Qui la Santa Sede e il patriarca serbo non hanno mai interrotto i rapporti. Anzi, si sono intensificati. Ad esempio, a settembre il segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, è stato fra noi: il patriarca lo ha invitato nella sua residenza e poi è venuto alla Messa nella Cattedrale cattolica».
Lei è uno dei vicepresidenti del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa. Il continente fa poco per la pace?
«L’Europa è troppo frammentata per avere un significativo peso politico nel mondo. Quasi tutti i “grandi” Paesi agiscono per i propri interessi. Così non sentiamo la voce dell’Europa di fronte ai conflitti che insanguinano l’umanità e alla possibilità di aprire negoziati. La Ue è utile solo dal punto di vista economico, non per apportare cambiamenti sulla scena politica internazionale».
L’arcivescovo di Belgrado, Ladislav Nemet, con i giovani serbi all'incontro del Mediterraneo a Marsiglia - Arcidiocesi di Belgrado
Lei ha denunciato più volte le divisioni fra Est e Ovest dell’Europa. Che cosa sta accadendo?
«La storia europea ci insegna che il continente si è sviluppato quando è stato segnato da una visibile unità politica e sociale. Cito l’Impero Romano o il regno di Carlo Magno, ma anche il Medioevo delle università e degli ordini religiosi. Oggi manca un dialogo reale, aperto, onesto. Ed è ormai anacronistico ritenere che alcune nazioni debbano avere un ruolo di leadership. La mancanza di dialogo vale anche per la Chiesa. Ma ad agosto, prima del Sinodo a Roma, si sono riuniti a Linz i partecipanti europei all’Assemblea in Vaticano. L’atmosfera è stata molto buona e tutti hanno potuto parlarsi e ascoltare a vicenda. Secondo l’opinione di un paio di vescovi, l’evento si è svolto senza “autorità ecclesiastica” e coloro che si considerano gli innovatori si sono tenuti alla larga».
È stato missionario nelle Filippine. Ora è l’Europa una terra di missione?
«Sicuramente. Quando sono rientrato dall’Asia nel 1990, ho compreso quanto il nostro continente, che per centinaia di anni ha portato il Vangelo nel globo, si muovesse ormai verso altri orizzonti. Certo, non è la geografia che determina l’impegno missionario. Ogni continente è terra di missione in sé: non c’è eccezione. E ogni situazione di vita è una sfida alla missione. Inoltre tutti siamo chiamati ad annunciare il Vangelo alle genti: vicine o lontane».
Il futuro cardinale Ladislav Nemet con il patriarca ortodosso serbo Porfirije - Arcidiocesi di Belgrado
I cattolici sono una piccola minoranza: il 5% in Serbia o lo 0,2% in Macedonia. In gran parte di radici ungheresi, ma c’è anche chi è d’origine slava: croati, bulgari, cechi, slovacchi. Si corre il rischio di essere discriminati?
«Grazie a Dio, in tutti i Balcani regna la pace: quindi anche noi, come Chiesa delle minoranze, viviamo un clima di distensione. Stiamo molto meglio rispetto ad alcuni decenni fa, anche se abbiamo ancora margini di miglioramento. Tuttavia, è importante che i credenti lavorino insieme per una società riconciliata: siano essi ortodossi, cattolici, evangelici o rappresentanti della comunità musulmana».
La Serbia e la Macedonia sono tappe della rotta balcanica, la «via di terra» verso l’Europa dei migranti in fuga da guerre, miseria, persecuzioni.
«Chiunque non sia contagiato dal nazionalismo si rende conto che il fenomeno migratorio fa parte della storia dell’umanità. Purtroppo l’Europa si sta chiudendo in se stessa; si moltiplicano gli atteggiamenti xenofobi; dilaga una politica sovranista. Nel frattempo si dimentica la crisi demografica che sta guastando molti Stati del continente. Allo stesso tempo abbiamo milioni di lavoratori a basso costo che sono trattati come schiavi. Papa Francesco parla chiaramente delle quattro azioni fondamentali, ossia accogliere, accompagnare, sostenere e integrare, che possono aiutare ad affrontare la questione migranti».
La Serbia è considerata vicina alla Russia. Il Papa, anche grazie alla missione affidata al cardinale Matteo Zuppi, mantiene aperto un canale con Mosca.
«Il popolo russo è un grande popolo. Ha dato molto alla cultura e allo sviluppo umano. Ho letto i classici russi mentre ero al liceo: Tolstoj, Dostoevskij, Pasternak, Solzenicyn. Quando sono stato in Russia, sono rimasto colpito dall’ospitalità. È necessario rispettare questa grande nazione e al tempo stesso accettare che la società non sia governata solo da regole di stampo occidentale. Pertanto dobbiamo fare il possibile affinché la Russia non si senta esclusa dalla famiglia europea».
L’arcivescovo di Belgrado, Ladislav Nemet, e papa Francesco - Arcidiocesi di Belgrado
Lei ha partecipato all’ultimo Sinodo in Vaticano. Possiamo parlare di “rivoluzione” sinodale nella Chiesa?
«Questa dimensione era già presente nel primo millennio della Chiesa. Ma ciò di cui stiamo parlando oggi è del tutto nuovo. Finora non ci sono mai stati così tanti laici preparati che sanno dialogare in maniera paritaria con il clero, portando la freschezza di cui abbiamo davvero bisogno. Il Concilio ha aperto la Chiesa al mondo. Adesso, con il processo sinodale, la comunità ecclesiale è chiamata a lasciarsi alle spalle un approccio rigido e stantio per spalancare le porte a tutti».
Al Sinodo si è discusso del ruolo delle donne nella Chiesa e anche di diaconato femminile. Ma nel Documento finale il paragrafo sul “genio femminile” ha avuto il maggiore numero di voti contrari.
«Anche nel 2015, durante il Sinodo sulla famiglia, il punto che aveva ricevuto più “no” era stato quello sui sacramenti per quanti vivono relazioni irregolari. C’è chi teme - non importa se vescovo, prete o laico - che una valorizzazione della donna non sia in linea con gli insegnamenti di Cristo. Le paure vanno comprese, anche se oggi nella Chiesa si manifesta una maggioranza che la pensa diversamente. Una maggioranza che non è il risultato di un iter democratico ma del cammino sinodale. Il Battesimo che rende partecipi del sacerdozio comune dei fedeli ci incoraggia a un serio rinnovamento. Serve trovare risposte pastorali nuove anche in questo ambito. E non sono ammessi ulteriori ritardi».