Il libro. «Non dimenticarti dei poveri, mi dissero». Francesco racconta il suo Conclave
Il Papa parla ai fedeli subito dopo la sua elezione
Pubblichiamo un estratto del libro «Life. La mia storia nella storia», l’autobiografia di papa Francesco scritta assieme a Fabio Marchese Ragona, edita da HarperCollins e in uscita il 19 marzo.
Il giorno dell’elezione, il 13 marzo, dopo aver trascorso la mattina in Sistina per le votazioni, ho avuto tre segnali molto chiari. Devo premettere che nei giorni del conclave, per non aver contatti con il mondo esterno, dormivamo tutti alla Domus Santa Marta; rientrati lì per il pranzo, prima di andare a mangiare, salii al quinto piano dove alloggiava il cardinale Jaime Ortega y Alamino, arcivescovo di L’Avana, che mi aveva chiesto una copia di quel discorso tenuto durante le congregazioni generali. Gli portai la trascrizione, scusandomi perché era scritto a mano e informandolo che non avevo fotocopie. E lui mi disse: «Ah, che bello, mi porto a casa un ricordo del nuovo Papa...». E questo fu il primo segnale, ma ancora non capivo. Presi l’ascensore per ritornare al mio piano, il secondo, ma al quarto si fermò ed entro il cardinale Francisco Errazuriz, arcivescovo emerito di Santiago del Cile, che conoscevo dai tempi di Aparecida. « Hai preparato il discorso?» mi chiese. «Quale discorso?» risposi incuriosito. «Quello di oggi, che dovrai fare quando ti affaccerai dalla loggia centrale della basilica…» fu la sua risposta. E quello fu il secondo segnale, ma, anche in questo caso, non capii. Poi scesi a pranzo, entrai nella sala con il cardinale Leonardo Sandri. Alcuni cardinali europei che erano già dentro mi dissero: «Venga, eminenza, venga qui, ci racconti un po’ dell’America Latina...». Senza farci troppo caso accettai il loro invito, ma mi fecero un vero interrogatorio con tante domande. Alla fine del pranzo, mentre uscivo, venne da me il cardinale Santos Abril y Castello, che avevo conosciuto bene quando era stato nunzio apostolico in Argentina. Mi chiese: « Eminenza, scusi per la domanda, ma è vero che a lei manca un polmone?». «No, non è vero» risposi, «a me manca soltanto il lobo superiore del polmone destro.» «Quando è successo?» insistette lui. «Nel 1957, quando avevo ventun anni» gli spiegai. Lui si fece serio e, con fare alquanto scocciato, affermò: «Queste manovre dell’ultimo momento…». E quello fu il momento preciso in cui mi resi conto che i cardinali stavano pensando a me come successore di Benedetto XVI. Il pomeriggio tornammo tutti in conclave; arrivato davanti alla Cappella Sistina trovai il cardinale italiano Gianfranco Ravasi e ci fermammo a parlare perché, per i miei studi, usavo sempre le edizioni dei libri sapienziali curate da lui, in particolare il libro di Giobbe. Rimanemmo lì fuori a confrontarci, facendo avanti e indietro vicino all’ingresso: dopo quello che era successo a pranzo, evidentemente a livello inconscio non volevo entrare, perché temevo che ci sarebbe stata l’elezione. Tanto che, a un certo punto, uscì un cerimoniere pontificio e ci chiese: « Ma voi entrate o no?». Alla prima votazione fui quasi eletto, e a quel punto si avvicinò il cardinale brasiliano Claudio Hummes e mi disse: « Non aver paura, eh! Così fa lo Spirito Santo!». E poi, alla terza votazione di quel pomeriggio, al settantasettesimo voto, quando il mio nome raggiunse i due terzi delle preferenze, tutti fecero un lungo applauso. Mentre lo scrutinio continuava, Hummes si avvicinò di nuovo, mi baciò e mi disse quella frase che mi è rimasta sempre nel cuore e nella mente: « Non dimenticarti dei poveri…». E lì ho scelto il nome che avrei avuto da Papa: Francesco. In onore di san Francesco d’Assisi. Lo comunicai ufficialmente al cardinale Giovanni Battista Re: il decano, che era il cardinale Angelo Sodano, e il sottodecano, il cardinale Roger Etchegaray, erano fuori dal conclave perché ultraottantenni e quindi, essendo il primo cardinale vescovo elettore in ordine di anzianità, Re, così come previsto dalla normativa, svolgeva in Sistina i compiti del decano. Fu lui a pormi le due domande previste dal rito: « Accetti la tua elezione canonica a Sommo Pontefice?» e «Con quale nome vuoi essere chiamato?». La mia vita era stata ancora una volta stravolta dai piani di Dio. Il Signore era accanto a me, lo sentivo presente, mi anticipava e mi accompagnava in questo nuovo incarico al servizio della Chiesa e dei fedeli, deciso dai cardinali che agivano mossi dallo Spirito Santo. Quando arrivò il momento di indossare per la prima volta gli abiti da Pontefice, l’allora maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie, monsignor Guido Marini, all’interno della cosiddetta “Stanza del pianto” mi spiegò con grande pazienza tutto ciò che andava fatto e mi mostrò la croce pettorale, le scarpe rosse, la talare bianca in tre taglie e altri paramenti papali, tra cui la mozzetta rossa. Gli dissi: «La ringrazio tanto per il suo lavoro, monsignore, ma sono molto affezionato alle mie cose: indosserò solamente la talare bianca e terrò la mia croce pettorale da arcivescovo e le mie scarpe, che sono ortopediche! ». Lui, con grande disponibilità, accettò la mia decisione. Poi dissi ai cerimonieri che, dopo l’Habemus Papam, desideravo avere accanto a me nella loggia centrale della basilica anche il cardinale Claudio Hummes e l’allora vicario per la Diocesi di Roma, il cardinale Agostino Vallini. E fui accontentato. Non posso nascondere che provai una grande emozione nel vedere tutta quella folla in piazza San Pietro che aspettava di vedere il nuovo Papa. C’erano bandiere da tutto il mondo, preghiere, canti e, nonostante la pioggia, tutti erano rimasti lì ad aspettare. Lo Spirito soffiava sulle genti, era un momento di grazia per tutta la Chiesa, un unico coro di preghiere si levava fino al cielo per rendere grazie al Signore! Un pensiero andò ai miei genitori, a nonna Rosa, ai miei fratelli, pensai a tutta la gente povera e scartata che avevo conosciuto durante la mia vita e trovai la forza necessaria ricordandomi proprio di loro e decidendo di metterli al centro del mio servizio.