Parigi. Il cardinale Turkson: «La solidarietà non può ridursi a elemosina»
Il cardinale Peter Kodwo Turkson
«Dobbiamo cambiare il paradigma di sviluppo, in Paesi come quelli d’Europa e nei Paesi da cui partono tanti migranti. L’Africa non può essere ridotta a un insieme di Paesi che forniscono materie prime. E la solidarietà non può ridursi a fare l’elemosina. Occorre uno sviluppo equo». È questa una ferma convinzione del cardinale Peter Kodwo Turkson. Il porporato è intervenuto ieri a Parigi al colloquio tra il nuovo Dicastero per lo sviluppo umano integrale, di cui è prefetto, e la Missione d’osservazione permanente della Santa Sede presso l’Unesco. Tema: «Dialogo sociale. L’avvicinamento delle culture attraverso le lingue».
Eminenza, san Giovanni Paolo II, parlando all’Unesco il 2 giugno 1980, evocò la capacità umana di “spiritualizzare” le cose, le opere, le parole di una lingua. Il tema del suo Dicastero riguarda questo potenziale?
Lo sviluppo riguarda la persona, che ne è il cuore. Non si può cominciare nessun progetto di sviluppo senza capire chi è la persona. E la persona non può mai essere ridotta a un oggetto. Lo sviluppo significa sempre aiutare le persone a rispondere a una vocazione, come diceva papa Benedetto XVI. In ogni persona, esiste il potenziale interiore di una crescita. Ogni iniziativa di sviluppo significa far divenire una persona ciò che è. Per questo, lo sviluppo ha un aspetto materiale e un altro spirituale. Senza apertura alla trascendenza, lo sviluppo umano integrale non è possibile.
Lo scorso 8 febbraio, si celebrava la Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta, una data ispirata dalla santa sudanese Giuseppina Bakhita. Il lavoro di chi lotta contro la tratta, come tante suore, è un esempio di sviluppo? Certo. Le suore sono state sempre all’avanguardia in questa lotta per la liberazione delle donne dalla schiavitù. Discepoli di questa lotta sono stati anche i comboniani e altri ordini. È un’attività molto pericolosa. Talvolta, le suore si vestono come le donne che vogliono aiutare, in modo da cominciare un dialogo con loro. L’impegno di queste suore ci ricorda Gesù che si è incarnato per salvare il destino degli uomini. È una lotta che durerà.
Lei si è recato lo scorso febbraio a Lourdes per la Giornata mondiale del malato. Anche i luoghi come Lourdes disseminano sviluppo?
È uno sviluppo che riguarda il corpo, che può essere anche annientato dalla malattia. Il cuore del messaggio di Lourdes è semplice ed è rivelato anche negli ultimi giorni della vita di Bernadette, così come nella testimonianza finale che Giovanni Paolo II ha dato al mondo. La debolezza del corpo di una persona non significa la riduzione della dignità come essere umano, anche nei casi in cui la sofferenza è grande. Si va a Lourdes per sperimentare la gloria di Dio che trasforma, anche se con fede molti si recano pure per chiedere una guarigione. Queste persone che soffrono offrono lezioni anche a chi non soffre nel corpo. È stato il profeta Amos a dire che Dio non fa nulla senza suscitare testimoni.
Nel motu proprio di papa Francesco per istituire il Dicastero, può sorprendere leggere che c’è spazio anche per i circensi…
Il Dicastero segue tutte le persone che vivono spostandosi di continuo. Le segue in tutte le tre fasi: posto d’origine, movimento, destinazione. Occorre offrire loro almeno la certezza di una chiesa sempre aperta. Chi si sposta di continuo vive una forma di debolezza che può pure diventare consapevolezza della necessità di stringere la mano di qualcun altro. Ma se i circensi hanno piani di movimento e la loro presenza è sempre desiderata, ben più acuta è la sofferenza di tanti altri divenuti migranti.
Una ferita più che mai aperta…
Dobbiamo fare di tutto per permettere a queste persone di esercitare un mestiere e vivere in piena dignità nei luoghi dove hanno delle radici. Hanno il talento, il cervello, la forza. Ma tante condizioni di non sviluppo impediscono loro di liberare e realizzare la loro vocazione e il loro essere.