La visita del Papa. Il Papa a Nomadelfia. Quando Buzzati arrivò e restò «imbesuito»
Dino Buzzati con don Zeno Saltini nel maggio 1965
«Siamo a 12 chilometri da Grosseto. Dodici, o dodici miliardi di chilometri? Vien fatto di chiedersi, tanto ci si sente lontani dal solito mondo… Chi arriva per la prima volta ha il dubbio che sia tutta una montatura, retorica, belle parole, illusione. Poi guarda, ascolta, domanda e resta imbesuito».
Forse queste parole stampate sulle pagine del Corriere della sera negli anni Sessanta uscite dalla penna di uno scrittore agnostico come Dino Buzzati, fra i cui racconti ce n’è uno dal titolo Il cane che ha visto Dio, anche a tanti anni di distanza non sono destinate a rimanere senza eco, restano ad indicare la sorpresa per l’esistenza di questa comunità dove la fraternità non è un consiglio, ma legge, che lascia ancora «imbesuiti», intontiti.
A portarci è una strada bianca orlata di cipressi, di là corrono i filari delle viti ben curati, i campi seminati, le case basse di pietra dei gruppi famiglia tra gli ulivi, un via vai di bambini con le biciclette, gli abitati in comune, in cima una croce bianca, segno di un monachesimo sociale che ha trovato radici dalla primavera del ’49, in quest’angolo della maremma toscana.
E la sorpresa è la stessa che Buzzati riporta da scrupoloso cronista venendo qui nel maggio del 1965: «Un giornalista straniero, che ha l’aria di non credere a niente, si rivolge a un ragazzetto e gli fa vedere un altro bambino. “Quello là – gli chiede con una faccia da presa in giro – quello là è un tuo fratello?”. “Perché? – gli risponde il bambino –. Non è anche fratello tuo?”».
Nomadelfia, che dal greco significa “legge di fratellanza”, non è il mondo irreale degli elfi del Signore degli anelli, ma la possibilità di sperimentare di persona un luogo di fraternità e di solidarietà che ha come fondamento la realtà della vita cristiana: il Vangelo. L’ha voluta così, don Zeno Saltini, il sacerdote modenese che ne mise la prima pietra nel lontano 1954 ricavandola dalle prime comunità cristiane di cui parlano gli Atti degli apostoli, perché è proprio dalla convinzione che il Vangelo genera una nuova civiltà e che non era utopia la vita delle prime comunità cristiane la sorgente da cui è scaturita: «La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuor solo e un’anima sola e nessuno considerava proprietà quello che gli apparteneva ma fra loro tutto era comune».
«Una vera e propria realtà sociale che oggi è un piccolo popolo di trecento persone, cinquanta famiglie decise a vivere insieme la fraternità secondo il codice evangelico in tutti gli aspetti della vita e del lavoro: familiare, sociale e politica. Né padroni né servi, qui i beni sono messi in comune e le famiglie sono disponibili ad accogliere figli in affido. Quattro o cinque famiglie insieme formano un “gruppo familiare”. Le scuole sono interne e l’obbligo scolastico è stato portato a 18 anni» spiega Francesco, il presidente di Nomadelfia mentre ci porta alla tomba del fondatore percorrendo il tratto che papa Francesco compie giovedì 10 maggio, venendo a rendere omaggio alla sua memoria.
«Ad un mondo di parole bisogna rispondere coi fatti, il Vangelo non sono chiacchiere. Don Zeno era un uomo lungimirante dalla coscienza lucida, un uomo netto semplice e pratico per il quale cambiare la civiltà significava cominciare da se stessi». Nella sala don Zeno centotredici bambini della comunità sono alle prese con i regali da offrire al Papa che viene qui per incontrare tutti i nomadelfi dopo aver incontrato uno dei gruppi familiari.
Don Ferdinando, terzo successore di don Zeno ci lascia «L’uomo è diverso», una meditazione sulle beatitudini scritta dal sacerdote modenese dove dice che non ci salva da soli e quasi a ricalcare quanto oggi Papa Francesco afferma le beatitudini sono il programma di vita che ci propone Gesù… e un protocollo sul quale noi saremo giudicati: “Sono stato affamato e mi hai dato da mangiare, ero assetato e mi hai dato da bere, ero ammalato e mi hai visitato, ero in carcere e sei venuto a trovarmi”». Poche parole, semplici parole, ma pratiche a tutti «perché il cristianesimo è una religione pratica: non è per pensarla, è per praticarla, per farla». «Precorriamo i tempi cominciando a vivere da uomini. Scopriremo in noi stessi che l’uomo è diverso e i nostri figli saranno la civiltà vivente» scrive don Zeno.
Non desta meraviglia perciò oggi l’arrivo qui, in questa comunità che evoca quasi come uno scorcio nostrano le lontane Reducciones gesuite, dopo aver rimesso in fila al centro della Gaudete et exsultate le beatitudini evangeliche come canovaccio non solo per una degna vita cristiana. Questa visita apostolica, a settant’anni dalla nascita di Nomadelfia, dopo aver indicato la memoria di preti discussi in vita ma testimoni autentici del Vangelo, vuole perciò indicare come sia possibile vivere il cristianesimo delle beatitudini. Perché in fondo questo dice Nomadelfia: che il cristianesimo non è affatto una utopia. Utopia è, solo di fronte al nostro egoismo. E dice che non è neppure una chiacchiera, è un fatto; e che bisogna fare, prima di dire. «Altrimenti nostra religione è solo un minare il nome di Dio invano», diceva già nel 1951 David Maria Turoldo. Tra tanto cristianesimo edulcorato, ridotto, smussato si scorge qui un’oasi di cristianesimo integrale con tutto ciò va da sé che ha di arrischiato, di pericoloso, di scandaloso anche, per l’uomo della civiltà del benessere.
Il non credente Dino Buzzati si era confrontato e lasciato interrogare intimamente dalla provocazione evangelica di Nomadelfia. Arriverà a scrivere che essa «è un brevetto di Gesù» rimanendo disarmato di fronte allo spirito di comunione e alla spontaneità dei loro bambini. «Nomadelfia – scrive – senza dire una sola parola, ci fa il più doloroso rimprovero, ci fa capire come sia sbagliato il nostro modo di vivere, gli affanni, i desideri, le vanità, la corsa disperata dietro il vento. Essere ricchi, essere famosi, essere invidiati. Bella roba! Per quanto si faccia non basta mai. Mai sazi, mai tranquilli! E pensare che sarebbe così semplice. La bontà. Volersi bene. Loro ci sono riusciti e noi no… Possibile che degli uomini di carne ed ossa come noi abbiano potuto realizzare il Vangelo in piena letizia?… Il sogno dei santi è qui diventato realtà quotidiana».
«Oggi è necessario capire cosa Nomadelfia significa per la Chiesa, e cosa la Chiesa significa per Nomadelfia» ci dice il vescovo Rodolfo Cetoloni.
Quanto a don Zeno proprio il vescovo della diocesi di Grosseto nel 2013 aveva inoltrato alla Santa Sede la richiesta per l’introduzione della causa di canonizzazione, ma la risposte negative dalla Congregazione per la dottrina della fede non hanno permesso di concedere ad oggi il nulla osta. Non è una novità. Il 7 agosto 1978, all’indomani della morte di Paolo VI, che aveva mostrato profonda stima per la sua opera, don Zeno aveva scritto: «Quando Montini era cardinale di Milano, disse alla contessa Albertoni Pirelli che diede in dono queste terre: “Se Nomadelfia riuscirà, dovremo rivedere molte cose nella Chiesa”».