L'analisi. Montini, il "genio della carità" tra politica, pastorale e amicizia
Paolo Vi parla all'Onu, 5 ottobre 1965
La memoria liturgica di Paolo VI che si celebra oggi – nel giorno in cui fu ordinato sacerdote – coincide col 50° dell’esortazione apostolica Octogesima adveniens che, commemorando la Rerum Novarum di Leone XIII, rimodulava la tradizionale dottrina sociale della Chiesa sulla base delle nuove istanze sociali. Inoltre, proprio 50 anni fa, Paolo VI determinò la fondazione presso la Cei della Caritas italiana che ereditò, ampliandole, le funzioni della Pontificia opera di assistenza (Poa). Diversamente da questa, la Caritas avrebbe dovuto avere finalità non solo assistenziali ma anche pedagogiche e pastorali, mentre in Vaticano venne istituito il Pontificio Consiglio Cor Unum per riunire diverse attività caritative.
Giovanni Battista Montini sin da ragazzo aveva praticato un esercizio concreto della carità, stimolato dal fecondo ambiente familiare, prestandosi ad assistere a Brescia i più piccoli. Giunto a Roma subito dopo l’ordinazione, e divenuto nel 1923 assistente del circolo romano della Fuci, avviò gli universitari all’azione caritativa con la “Conferenza dei Poveri per Porta Metronia”. In quei primi anni Venti nel poverissimo agglomerato di casupole poi smantellato dopo la guerra il sacerdote svolse la sua prima predicazione popolare tenendo lezioni di catechismo ai bambini indigenti. Si scorgono qui i due tratti distintivi della successiva azione pastorale: un’intensa carità e l’apostolato che da essa è generato, e che Montini intese e praticò come una declinazione della carità, mosso da quello che considerava un «debito sempre aperto: amare gli altri». La stessa ansia pastorale che da arcivescovo di Milano lo avrebbe spinto ad avvicinare i “lontani”, indicendo nel 1957 la Missione cittadina, lo aveva indotto a raggiungere nelle malfamate periferie romane anche gli «uomini che non si trovano mai al momento della visita e che non vengono a Messa». Fu in questo contesto che per la prima volta il futuro Paolo VI poté esercitare quella carità pastorale a cui aspirava in quanto «propria di un sacerdote che assiste, educa, santifica una comunità», così «come fa un vice-parroco, o un parroco umile, saggio e zelante».
Come assistente del circolo Fuci, Montini iniziò a tenere dal dicembre 1924 un corso di religione per giovani studenti delle diverse facoltà alla Sapienza. Ordinò poi gli appunti del corso pubblicandone gli schemi prima sulla rivista nazionale della Fuci Azione Fucina e poi, nel 1931, in un libretto, La via di Cristo, destinato a universitari, studenti delle superiori e insegnanti di religione, disciplina resa obbligatoria dopo il Concordato del 1929 anche nelle scuole medie e superiori. Si trattava di un opuscolo nel quale intendeva presentare la morale cristiana «non solo in ciò che proibisce e in ciò che lascia lecito fare (morale dei casisti, dei minimisti, dei tiepidi)» ma pure in quello che si è invitati a compiere «sempre però distinguendo fra ciò ch’è precetto e ciò ch’è consiglio». Vi si può ravvisare la riflessione del giovane Montini sulla carità: già allora esortava a «concepire il cristianesimo come religione d’amore che dà forza vivificante», e tutta la morale cristiana «consisterà quindi nel conservare la carità» che ha per base «il dogma a noi più propizio: la misericordia di Dio». Nei suoi schemi si soffermava in particolare sulla misericordia, che riteneva fondamentale per il credente ma che non andava considerata «indifferenza morale» ma «stimolo e condizione di conversione: cioè della più alta moralizzazione».
Da qui Montini sviluppava un concetto di «amore per il popolo» che superava quello di «democrazia», arrivando a una «demofilia cristiana» con al centro «l’urgenza delle necessità del prossimo». Nel 1928 su un’altra rivista fucina, Studium, richiamandosi a un’espressione di Pio XI, Montini definì la politica come «la forma più alta di carità, perché più vasta, efficace ed importante». È singolare riscontrare in queste riflessioni giovanili di Montini la radice di quanto sarà espresso da Paolo VI nella Octogesima adveniens ove la politica è presentata come «una maniera esigente – ma non è la sola – di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri».
La pratica della carità che Montini proponeva ai suoi studenti non richiedeva sforzi eroici perché «il prossimo più facilmente prossimo» sono gli amici. «L’amicizia cristiana – spiegava – alla mutua benevolenza e allo scambio di beni aggiunge il consueto più alto motivo: per carità di Cristo». Montini, che tra i giovani conosciuti nella Fuci coltivò le amicizie cui restò sempre fedele, tornerà anche da arcivescovo di Milano a parlare dell’amicizia come di un «miracolo della carità», raccomandando di «allargare il proprio cuore a quello degli altri», perché «la grande parola “carità” si declina, si adatta, si riflette in piccole virtù che hanno il segreto nell’amicizia». Da Papa presentò l’amicizia come una forma di apostolato raccomandandola «come metodo, come allenamento e proprio come interpretazione autentica della carità effusiva e doppiamente benefica, a chi la esercita e a chi ne riceve i benefici».
tra i poveri delle baracche di Porta Metronia,
Non è difficile scorgere nelle esortazioni di Paolo VI il nucleo degli insegnamenti che da giovane sacerdote impartiva negli anni Venti: già nel gennaio 1926 coniò l’espressione di «carità intellettuale», che meglio qualifica il significato profondo della sua azione al servizio degli universitari cattolici, perché chiunque con l’attività di pensiero si fosse sforzato di conoscere meglio la radice delle cose e di rendere gli altri partecipi delle sue scoperte avrebbe assolto a un atto di vera e propria «carità intellettuale». A questa forma di carità Montini affiancò sempre concrete e frequenti azioni di sostegno a chi era nel bisogno, come l’instancabile opera caritativa in Vaticano nella seconda Guerra mondiale quando, Sostituto presso la Segreteria di Stato, creò e guidò l’Ufficio Vaticano Informazioni per i prigionieri di guerra e, da capo della Commissione soccorsi per le vittime della guerra, si spese senza sosta nell’assistenza a sfollati e bisognosi e nell’accoglienza dei rifugiati, animato e pervaso dal «genio della carità», secondo l’efficace definizione del cardinale Giovanni Battista Re nel suo recente Tre papi santi conosciuti da vicino (Lev).
In quel travagliato periodo, per Montini, bisognava fare della propria vita «un tempio della e alla carità». Ma «la carità è, di natura sua, sempre <+CORSIVO50>in fieri<+TONDO50>», osservò nel 1957 da arcivescovo. Nell’estate 1963, nel ritiro dopo l’elezione al pontificato, Paolo VI annotò come l’essere divenuto Papa comportasse un «primato non solo nella potestà, ma altresì nella carità». Il senso stesso del termine «dialogo» per Paolo VI andava inteso quale atto di carità, così come scrisse nella sua prima enciclica Ecclesiam suam quando spiegò che «daremo a questo interiore impulso di carità, che tende a farsi esteriore dono di carità, il nome, oggi diventato comune, di dialogo». Negli anni successivi, rifacendosi alla Populorum Progressio, evidenziò come il vero sviluppo umano e sociale può nascere dagli interventi che migliorano le condizioni delle popolazioni bisognose, ponendo a cardine di tutto la carità, applicata sul piano sociale. «Questo perché – dichiarò nel 1970 – se la giustizia sociale ci fa rispettare il bene comune, solo la carità sociale ce lo fa amare» e quindi «la carità, che vuol dire amore fraterno, è il motore di tutto il progresso sociale».
Inaugurando infine la sede della Cei, il 9 maggio 1974, Papa Montini raccomandò ai vescovi un atteggiamento di «carità collegiale» che «esige una perfetta armonia, da cui risulta la sua forza morale, la sua bellezza spirituale, la sua esemplarità sociale». «La carità collegiale – precisò –, non meno d’un concerto artistico, reclama e produce ciò che le è sommamente proprio, l’unione, anzi, ai vertici, l’unità». Esortò l’episcopato italiano anche a non avere timori di fronte alle sfide poste da una società in trasformazione perché «oggi ogni questione assume aspetti grandi e nuovi, che di per sé intimoriscono il nostro povero e pavido animo umano, ma nello stesso tempo risvegliano quella carità che "urget nos", e accresce l’umile audacia della nostra pastorale attività, moltiplicando in noi quella fiducia che Cristo, per noi morto e risorto, ci assicura». Quarant’anni dopo, il 19 ottobre 2014, a conclusione del Sinodo straordinario sulla famiglia, papa Francesco beatificando Paolo VI richiamò le parole con cui istituì il Sinodo dei Vescovi affinché «scrutando attentamente i segni dei tempi, cerchiamo di adattare le vie ed i metodi alle accresciute necessità dei nostri giorni e alle mutate condizioni della società».