«Alla fine della mattinata, mi si è avvicinata una coppia. Lei mi ha detto: "Padre, siamo qui in viaggio di nozze. I soldi che gli amici ci hanno regalato per il matrimonio vorremmo devolverli a
Missão Paz. Ci ha colpito quello che fate. E vogliamo contribuire"». Ed è solo una delle tante storie di condivisione a partire dall’incontro che possono nascere con la Giornata mondiale della gioventù». L’accento veneto è quasi scomparso. Al suo posto, una leggera cantilena brasiliana accompagna le parole. «Sono qui ormai da 17 anni», si scusa padre Paolo Parise, sacerdote scalabriniano. Incredibile. A vederlo in mezzo agli oltre 80 ragazzi in maglietta azzurra sembra quasi uno della comitiva. Questo «pezzo» di popolo della Gmg è arrivato da Milano a San Paolo per la Settimana missionaria, accompagnato dal vicario generale dell’arcidiocesi, il vescovo Mario Delpini e dal responsabile della Pastorale giovanile, don Maurizio Tremolada. Gran parte del tempo, il gruppo ha voluto trascorrerlo nelle «periferie», non geografiche ma esistenziali.
Missão Paz, ad esempio, si trova in pieno centro, non troppo distante – per le dimensioni di una tra le cinque città più grandi del mondo – dalla storica Catedral da Sé. Eppure il quartiere Glicério, dov’è situata, è da sempre una periferia. Qui si sono ammassate per decenni le generazioni di connazionali sbarcati ai primi del Novecento. Oltre un milione di donne, uomini, bambini concentrati nei «cortiços». Stanze a malapena sufficienti per stendere un materasso, bagno, cucina e un pittoresco cortile in comune. I giovani milanesi non si sono limitati a guardarli nelle foto in bianco e nero appese nella
Missão.Appena fuori dal complesso fondato dagli scalabriniani nel 1940, c’è una selva di «cortiços». Non vi abitano più gli italiani ma i «nuovi migranti»: latinos – boliviani, peruviani, paraguayani, colombiani –, haitiani, africani, perfino cinesi e coreani. «Secondo i dati del ministero del Lavoro, la percentuale di stranieri, regolari e irregolari, in Brasile è ancora inferiore all’1 per cento della popolazione (che è di 190 milioni di persone,
ndr). Un tasso, dunque, basso – spiega padre Paolo –. Il punto è che quasi tutti si concentrano a San Paolo, la locomotiva brasiliana». E il loro numero è cresciuto in modo esponenziale negli ultimi dieci anni. Centinaia di migliaia sono stati attratti dal mito del «miracolo brasiliano». Per tanti, però, senza documenti, istruzione, conoscenza della lingua, i sogni di riscatto si sono infranti appena arrivati. Le sartorie clandestine di «schiavi» che producono abiti per le grandi marche, terribilmente diffuse nella metropoli, prosperano proprio grazie a questo esercito di disperati.Di loro si occupa
Nossa Senhora da Paz, cuore di
Missão Paz, chiamata ancora la «chiesa degli italiani». Un nome non casuale: tra le sue pareti bianche migliaia e migliaia di connazionali hanno trovato aiuto e assistenza. «È un esempio di come la Chiesa sia riuscita nel tempo a rispondere alle nuove sfide proposte dalla società. Restando fedele alla sua missione: accogliere ogni essere umano, qualunque sia la sua nazionalità, razza, religione», conclude il sacerdote. Ben 22 fedi differenti convivono in pace nella Casa del migrante che, insieme al Centro pastorale e di mediazione (Cpmm), al Centro studi e alla chiesa, compone la
Missão.«Cerchiamo di essere uno spazio di incontro tra le differenti culture. Tra loro e con la popolazione locale», afferma il parroco, padre Antenor Dalla Vecchia, il cui cognome tradisce un’ascendenza inconfondibilmente italiana. «Veneta, credo...», precisa. In media, al solo Cpmm si rivolgono quasi 700 persone ogni mese. Come Patrick, 31 anni, haitiano, arrivato 9 mesi fa in Brasile per inseguire un sogno: specializzarsi in studi internazionali per poter lavorare per le Nazioni Unite. «La mia famiglia appartiene all’esigua classe media haitiana. Dunque all’inizio avevo un po’ di soldi. Non sapevo, però, come muovermi. La
Missão mi ha aiutato. Così ora aiuto dando lezioni gratuite di portoghese ai migranti», racconta. Sono state storie come queste ad aver conquistato i giovani milanesi. «Sono convinto che la fede si giochi nella testimonianza – afferma don Tremolada –. Questi incontri, dunque, possono aiutare i ragazzi a sperimentare nuove forme di accostarsi alla realtà una volta rientrati a casa».