Intervista. Delpini: «Milano è una città generosa Ora riscopra la gioia di Dio»
Riscoprire il riferimento a Dio. Per vivere la gioia vera. E aiutare Milano, dove pure si fa tanto bene, a superare la tristezza. Il «senso di grigio» che a volte l’avvolge. Offre le coordinate del cammino proposto alla città e alla Chiesa ambrosiana, il nuovo arcivescovo Mario Delpini, in questa intervista raccolta nel Palazzo arcivescovile in dialogo col direttore di Avvenire Marco Tarquinio e il responsabile della redazione Cronaca Milano e Lombardia Davide Parozzi.
Eccellenza, cosa dice questa trama di incontri?
Dice che il vescovo non entra in diocesi come uno che prende possesso di un feudo, ma come uno che è dentro un popolo e porta davanti a Dio tutto il popolo con le sue preghiere, le tristezze, le speranze. E porta anche chi non può venire, come i carcerati e i malati.
Papa Francesco chiede di essere Chiesa in uscita. Cosa significa per Milano?
«Chiesa in uscita» è un appello necessario: ma credo si debba insistere sul cosa dire quando siamo fuori dai luoghi sacri. La Chiesa di Milano ha una presenza capillare, ascolta e accoglie tutti. Ma a volte ho l’impressione che debba ritrovare la ragione per cui va verso la gente: che non è solo di consolarla per un momento, ma di dare speranza di vita eterna. Dare il Vangelo. Se il sale perde il suo sapore, diventa inutile.
I cristiani sono sempre più impegnati nel sociale, ma sembrano fuggire dalla politica. Eppure anche lì servirebbe una «Chiesa in uscita»...
Sì, ma una Chiesa di laici che sentono la polis come propria responsabilità. Mi sembra un po’ infantile che aspettino dal vescovo la parola che li incoraggia all’impegno. Devono essere l’Università Cattolica, l’Ac, le associazioni e i movimenti, a educare i laici a capire che non basta far fronte alla singola emergenza, ma si deve avere a cuore l’insieme della convivenza.
Il giorno della nomina, invitando la città a non dimenticarsi di Dio, disse che per Milano avrebbe chiesto allo Spirito Santo il dono della gioia. Perché?
Non è possibile una gioia vera senza un riferimento a Dio: sono due temi assolutamente coessenziali. Altrimenti vivi come un condannato a morte, cui manca solo di sapere il giorno dell’esecuzione, della propria fine. Puoi avere successo e goderti la vita, ma appena spingi il pensiero oltre l’immediato, vedi l’abisso del nulla.
Milano è una città generosa. E c’è tanto bene nascosto...
Non si finisce mai di scoprire quanto bene c’è nelle nostre terre. Ma senza un riferimento a Dio, il bene che fa tanta brava gente appare come segnato dalla tristezza, dalla fragilità, da un senso di grigio ... E mi preoccupa che persino fra i cristiani il riferimento a Dio appaia un po’ marginale, e l’andare a Messa o il pregare non interagiscano con quanto si fa quotidiana- mente. Deve invece aiutarci a sentire la realtà della presenza di Dio che dà serenità, prospettiva, speranza a tutti. Mentre osserviamo i segni della secolarizzazione, vediamo fra noi genti di altre terre che hanno un’esistenza impastata del riferimento a Dio. E non solo fra i musulmani, ma anche fra i cattolici provenienti dalle Filippine o dal Sud America.
A proposito: quando si parla di immigrati, anche fra i cristiani sembrano farsi largo paura e diffidenza. Che fare?
C’è una comunicazione mediatica e personale discutibile, se non tendenziosa e maliziosa, che suscita confusione e paura. Già il fatto di confondere i profughi con gli immigrati che vivono e lavorano fra noi da anni, crea disinformazione. La questione profughi è gestita senza una chiara prospettiva, almeno europea. Ma c’è un altro punto trascurato: immaginare come saranno Milano, la Lombardia, l’Italia e l’Europa del futuro. Il «meticciato» di cui ci ha parlato spesso il cardinale Scola è una prospettiva reale e promettente. Ma la paura dell’invasione finisce per bloccare qualsiasi riflessione seria. Anche nella Chiesa ci limitiamo a parlare di integrazione: categoria discutibile, perché è come dire che i filippini o i sudamericani devono diventare come noi per far parte della 'nostra' comunità cristiana. Quale? Quella di come eravamo decenni fa? Dovremo invece cambiare tutti, per generare una cultura nuova e rinnovarci alla luce del Vangelo.
Incontrando i decani, ha annunciato che non scriverà una lettera pastorale. Quali saranno le coordinate fondamentali del cammino della diocesi?
Il riferimento a Dio, la vita come vocazione, la responsabilità per il mondo: queste sono le tre priorità, contenute nelle lettere di conclusione della visita pastorale. La prima: il discepolo del Signore vive del rapporto con il Signore: come può rinunciare alla Messa e alla preghiera? La seconda, da trasmettere ai giovani: vivere la vita come vocazione, in un dialogo con Dio che aiuta a dare significato alla nostra esistenza. La terza: essere comunità cristiana che – non nella forma dell’ideologia che si impone, ma della testimonianza che si offre – ha qualco- sa da dire sui temi d’oggi come il nascere e il morire, l’essere uomo e l’essere donna, l’amore, la sofferenza, i soldi, la vita pubblica...
Per prepararsi al nuovo ministero, si è fatto pellegrino fra i santuari della diocesi. Quale volto di Chiesa ha incontrato?
Una Chiesa che vuol bene al suo vescovo e prega volentieri insieme. Ho visto l’accorrere spontaneo, festoso, cordiale di tanta gente, e mi è stato di grande conforto: ma si è trattato – anche per gli orari e i giorni che ho scelto – soprattutto di adulti e di anziani. I ragazzi e i giovani spesso non hanno sentito la visita del vescovo come meritevole di attenzione. Il nostro è ancora un cristianesimo di popolo. Ma questo popolo è diversificato. E chiede proposte adeguate.
Quando le hanno chiesto di essere l’arcivescovo di Milano, come ha reagito?
Inizialmente, quando sentivo circolare il mio nome, pensavo fossero chiacchiere. Poi, a forza di sentirlo, ho cominciato a entrare nell’idea di poter essere scelto dal Papa, anche se a memoria mia non era mai accaduto che a Milano un vicario generale diventasse l’arcivescovo. Io pensavo fosse meglio un altro. Quando poi mi ha chiamato il nunzio, ho immaginato non fosse per un saluto... Più che il primo impatto, ho avvertito la progressiva presa di contatto col ruolo. E più ci penso, più mi spavento un po’. È per farmi coraggio con la preghiera e chiedere l’aiuto di tutti, che questa estate ho pellegrinato fra i santuari. Fare il vescovo non è l’impresa di un eroe solitario.
Ci sono state persone o incontri decisivi, a segnare la sua vocazione?
Faccio fatica a identificare solo una persona o un evento, anche se i miei genitori e lo zio prete sono stati importanti. Il mio è stato un cammino lineare, semplice, senza grosse crisi né grandi illuminazioni. Non ho mai fatto fatica, si trattasse dello studio o degli incarichi pastorali. Per me la vita è sempre stata facile. Ora inizia a essere un po’ più complicata...