Chiesa

Martire. Sarà beato il vescovo Angelelli, il «Romero d'Argentina»

Lucia Capuzzi sabato 9 giugno 2018

Cartello sul luogo in cui fu assassinato monsignor Angelelli

Sarà presto beato monsignor Enrique Angelelli, vescovo argentino, che da molti viene indicato come il "Romero dell'Argentina", assassinato dai militari il 4 agosto del 1976, durante il cosiddetto Processo di Riorganizzazione Nazionale a causa del suo impegno sociale a favore degli oppressi. Dopo 42 anni, viene riconosciuto il martirio per il vescovo di La Rioja e per i compagni, i padri

Carlos Murias e Gabriel Longueville e il laico Wenceslao Pedernera. Papa Francesco ha autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il relativo Decreto.

“Devoto con la fede del pellegrino, camminante instancabile di ricordi, bisaccia colma di speranze, con il suo ritmo di ton ton… Così è l’animo del mio popolo”. Ricorreva ai versi Enrique Angelelli per descrivere La Rioja e la sua gente. Solo la parola poetica riusciva a raccontare l’amore profondo per il popolo gli era toccato in sorte di accompagnare come pastore. Il popolo, tutto il popolo. A partire, però, come gli aveva insegnato il Vangelo e confermato il Concilio Vaticano II – a cui aveva partecipato -, da “los nadie”, i senza potere, senza ricchezza e per questo senza voce. La maggioranza degli abitanti de La Rioja, intrappolati in un sistema di sfruttamento semi-feudale.

Una scelta pericolosa quella di Angelelli. Specie alla vigilia dell’ultima e più feroce dittatura militare argentina. Facile, nel clima di polarizzazione degli anni Settanta, far passare la difesa evangelica della giustizia per “comunismo”. Facile perfino, una volta che i generali conquistarono il potere con il golpe, far uscire di strada il vescovo de La Rioja e camuffare l’omicidio, avvenuto il 4 agosto 1976, da incidente stradale. La verità storica e giudiziaria è stata scritta in modo indelebile solo 38 anni dopo, con la sentenza che il 4 luglio 2014 ha condannato all’ergastolo l’ex generale Luciano Benjamín Menéndez e l’ex commodoro Luis Fernando Estrella per aver, rispettivamente, ordinato e messo in atto l’assassinio. O meglio “martirio in odio alla fede” e beato ha affermato ora la Chiesa.

In realtà, il martirio di monsignor Angelelli è cominciato bel prima di quel fatidico giorno sulla strada da Chamical a La Rioja, fra le montagne affilate del nord-est argentino. La campagna diffamatoria nei suoi confronti è stata brutale fin dal suo ingresso in diocesi, nel 1968. Articoli infarciti di calunnie sui quotidiani locali, manifesti, vere e proprie aggressioni. Oltre allo stillicidio dei suoi diretti collaboratori. Come i sacerdoti Carlos de Dios Murias e Gabrile Longueville, e il laico Wenceslao Pedernera, sequestrati, torturati e massacrati, il 18 luglio 1976, giorno del compleanno del vescovo.

Proprio dopo una serie di indagini su quel delitto, Angelelli stava tornando da Chamical quando è stato a sua volta ucciso. Il suo sangue non ha fermato la macchina del fango. Alimentata a lungo, nel tempo, dalle bugie per far apparire, agli occhi dell’opinione pubblica, il vescovo come un “amico dei terroristi”.

“Terrorista” gli gridava quel 13 giugno 1973, mentre gli scagliava addosso i sassi, la folla inferocita di Anillaco, dove si era recato per la festa patronale. A sobillarla ad arte era stato l’allora governatore, Carlos Ménem, lo stesso che poi sarebbe diventato due volte presidente e avrebbe accumulato una sfilza di accuse di corruzione. Angelelli sopportò l’umiliazione e molte altri dolori e persecuzioni con “profetica pazienza”.

Un atteggiamento evangelico che commosse profondamente il giovane gesuita giunto a La Rioja proprio il giorno de la “sassaiola di Anillaco” per un ritiro spirituale. Il suo nome era Jorge Mario Bergoglio. “Mi sono trovato di fronte una Chiesa perseguitata, tutta, popolo e pastore”, una Chiesa che si è “fatta sangue, che si chiamava Wenceslao, Gabriel, Carlos, testimoni della fede che predicavano e che hanno dato il loro sangue per la Chiesa, per il popolo di Dio e per la predicazione del Vangelo”, una Chiesa che “alla fine si è fatta sangue nel suo pastore”.

Lo ha raccontato lo stesso Bergoglio, ormai arcivescovo di Buenos Aires e cardinale, durante la Messa a trent’anni dalla morte di Angelelli, il 4 agosto 2006. Quel primo incontro sancì l’inizio di un’amicizia tra il gesuita e il vescovo de La Rioja che portò quest’ultimo ad affidargli tre seminaristi – Enriquez Martínez Ossola, Miguel La Civita e Carlos González -, per proteggerli dalla persecuzione dei militari. Angelelli era fatto così: non si preoccupava dei rischi per se stesso. Il suo amore paterno, concreto, affatto ideologico era per ognuna delle “pecorelle” del gregge di La Rioja. Del resto lo ripeteva sempre: un pastore deve avere “un orecchio al Vangelo e l’altro al popolo”. Una frase che, secondo vari analisti, avrebbe ispirato un passo dell’Evangelii gaudium: “Un predicatore è un contemplativo della Parola e anche un contemplativo del popolo”.