La frontiera. Le macchine sempre più “umane”? Ma non avranno mai la vera libertà
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Nel suo intervento all’assemblea generale della Pontificia Accademia per la Vita il Papa si è interrogato su ciò che qualifica propriamente l’essere umano. Ha offerto tre indicazioni importanti, anche in collegamento con quanto viene espresso nella Bibbia. Nel nuovo contesto dominato dalle tecnologie – rispetto alle quali non si può essere “pro” o “contro”, come si trattasse di mettere il like su un social, ma con cui bisogna interagire in maniera buona – è indispensabile aver chiaro chi siamo. C’è infatti il rischio di una omologazione fra naturale e artificiale. C’è il tentativo, di cui si parla all’inizio del discorso, di riprodurre l’essere umano.
Il fallimento di questo progetto, però, è già prefigurato dal racconto biblico della Torre di Babele. Alla tentazione del linguaggio unico risponde l’intervento di Dio che corregge tale tentazione introducendo molteplici lingue. E così gli esseri umani sono si trovano costretti a riconoscere l’alterità e a impegnarsi a gestirla, chiamati alla cura reciproca. Ma anche il riferimento alla narrazione della caduta, nel contesto di Genesi 3, risulta illuminante per comprendere la situazione in cui viviamo. Le crescenti capacità della scienza e della tecnica inducono l’essere umano a compiere un ulteriore, scorretto processo di identificazione. Questa volta si tratta di un’identificazione non in un senso omologante, ma addirittura con Dio. L’essere umano, in grado di aumentare il proprio potere grazie allo sviluppo tecnologico, finisce infatti per sentirsi uguale a Dio. Non già creato “a immagine e somiglianza”, bensì proprio uguale. Sembra dunque che la tentazione del serpente si riproponga. Ma, di nuovo, somiglianza non significa identità. Se ciò fosse, si correrebbero conseguenze molto rischiose. Il rischio è quello sminuire l’importanza della responsabilità umana. Noi non possiamo sfuggire alle nostre responsabilità. Si tratta di responsabilità che proprio a partire dalla nostra limitatezza e creaturalità trovano la loro corretta collocazione. In ciò consiste infatti la radice della libertà umana, che appunto non è una libertà assoluta, onnipotente, ma richiede l’assunzione, per quanto possibile, delle conseguenze del proprio agire.
La terza indicazione che il discorso ci propone è quella che suggerisce di collocare la specificità dell’essere umano «a monte del linguaggio, nella sfera del pathos e delle emozioni, del desiderio e dell’intenzionalità». A partire da qui la differenza fra essere umano e dispositivi tecnologici, magari dotati di “Intelligenza Artificiale”, può essere meglio esplicitata. Non tanto per il fatto le macchine non possono provare emozioni, sebbene possano simularle, quanto perché diverso, strutturalmente, è l’agire dei due soggetti. L’agire umano è libero, può essere intenzionale, ed è capace di retroagire sui criteri e i principi che lo orientano, ed eventualmente di modificarli. L’agire dei dispositivi tecnologici, sebbene possa essere imprevedibile (nella misura in cui può “imparare” dall’interazione con l’ambiente) e sfuggire al controllo umano, ha una sorta di indipendenza, ma non di libertà. Non la ha proprio in quanto non è in grado di modificare i principi in base ai quali è stato costruito. Sottolineare queste differenze è fondamentale.
Solo se siamo consapevoli di chi siamo noi e di che cosa possono fare le macchine, possiamo istituire un rapporto adeguato con esse. La relazione vera, infatti, è possibile solo nel riconoscimento delle rispettive differenze. Ma questo accade solo se siamo consapevoli della nostra umanità. In che cosa essa consiste lo dice il Papa nella parte conclusiva del discorso. Fa riferimento alla capacità dell’essere umano di «riconoscere, apprezzare e convertire in senso relazionale a favore degli altri, assistito dalla grazia del Creatore», le proprie esperienze. La possibilità di istituire relazioni è qualcosa di specificamente umano. Spetta a noi, quindi, impostare una corretta relazione con le tecnologie, senza subordinarci alla potenza delle macchine e senza coltivare l’illusione di farci sostituire da esse. E così facendo sarà possibile «sviluppare una cultura che, integrando le risorse della scienza e della tecnica, sia capace di riconoscere e promuovere l’umano nella sua specificità irripetibile».