Chiesa

La sfida. Serve anche una “buona” comunicazione. Che sia annuncio, non marketing

Lucia Capuzzi venerdì 15 novembre 2024

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La Chiesa non sa parlare al mondo contemporaneo? Alla domanda posta dai ricercatori del Censis, nell’ambito della rilevazione sulla fede degli italiani, il 51,2% degli intervistati ha risposto positivamente. La proporzione è lievemente più alta tra le donne – 52,2% contro il 50,1% degli uomini – e fra i giovani sotto i 33 anni, 57%. Lo pensano soprattutto i cattolici non frequentanti – 56,1% – mentre fra i praticanti la percentuale cala nettamente al 29%. Quest’ultimo dato, però, non fa che ribadire un fatto: la comunità ecclesiale ha difficoltà a narrarsi nel senso più autentico oltre il ristretto circuito degli intimi. Non riesce a farsi prossima – con la parola e con la testimonianza – a quanti sono considerati più lontani.

Si potrebbe parlare di un problema di comunicazione. Il punto è che, nell’accezione standard, viene impiegato troppo spesso come sinonimo di marketing. Il racconto come un “make up” per rendere attraente agli occhi di eventuali clienti un dato prodotto nel mercato della fede. Non è questa la comunicazione che alla Chiesa fa difetto e di cui deve appropriarsi o, meglio, riappropriarsi. Da questa convinzione – emersa con forza dall’ascolto delle diocesi e delle realtà locali durante il biennio narrativo – il Cammino sinodale ha messo in moto un percorso di riflessione sul linguaggio e la comunicazione, oggetto di una delle cinque commissioni tematiche che hanno lavorato nella fase sapienziale. Dai territori era emersa la richiesta di un linguaggio meno paludato, retorico, avvitato su se stesso, che conservasse e restituisse la freschezza della Buona Notizia. Come trasformarla in prassi quotidiana? Il discernimento comunitario ha consentito di mettere a fuoco un concetto essenziale: la comunicazione non è questione di comunicazione. Riguarda – come si legge nel paragrafo 21 dei Lineamenti – «che cosa la Chiesa è disposta a mettere in comune con il mondo, che immagine ha di se stessa e cosa vuole raccontare».

La forma logora, dunque, rivela un nodo di sostanza da sciogliere. Il percorso di ascolto è stato un laboratorio per maturare uno stile più fedele al Vangelo. Porgendo l’orecchio alla «vita delle persone, con i suoi diversi linguaggi dettati dalle situazioni (gioie e fatiche, scelte e tappe, relazioni, lavoro, festa, affetti), la comunità cristiana può anche cambiare linguaggio: non per un semplice lavoro strumentale di adattamento e condiscendenza, ma per un esercizio spirituale di riconoscimento del vissuto umano come luogo teologico, in virtù del principio dell’incarnazione». Facendosi carne, il Creatore azzera la distanza con la creatura nella convinzione che, solo nel condividere un tratto di strada, possa avvenire quel mutamento del cuore – la metanoia – in cui il soggetto incontra la salvezza. Il modello, pertanto – che ha accompagnato nella riflessione anche i lavori della commissione incaricata di fare discernimento sul tema – è Gesù maestro anche di comunicazione. Dall’analisi dei suoi incontri con l’umanità del tempo, emerge un metodo peculiare – il metodo, appunto, che Dio adotta nei confronti dell’essere umano – in cui la forma esplicita la sostanza. A chiunque – Matteo il pubblicano, il giovane ricco, la Samaritana, l’adultera, il centurione – dà gratuitamente affetto, amicizia e considerazione. Non esige il cambiamento come pre-requisito della sequela. Ha e, per questo, dà fiducia all’interlocutore: l’occhio del Figlio – come l’occhio del Padre – vede chiaramente il peccato ma è capace di guardare oltre perché sa che chi gli sta di fronte è ben più del singolo sbaglio, pur grave o gravissimo. Quella dalla gabbia della condizione di peccatore è la grande liberazione del Maestro. La sola in grado di generare processi di conversione autentica. «Tutti, tutti, tutti», allora, non è un cedimento alla moda del momento. È fedeltà a Colui che era capace di riconoscere dignità a chi nemmeno riteneva di averne. Di non imprigionare l’altro in una definizione categorica. Di sfidare cliché culturali consolidati. Di dire la verità senza impiegarla come arma per ferire.

Un altro dato della ricerca del Censis è estremamente importante: il 72,2% degli intervistati ritiene la dimensione spirituale molto o abbastanza importante. Il cuore dell’umanità dell’Italia secolarizzata del Ventunesimo secolo continua ad avere sete di infinito. Archiviato il regime di cristianità, il cattolicesimo può e deve innaffiare i germogli di Regno sparsi nelle pieghe di questo cambiamento d’epoca.

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