Fratelli tutti. A Lampedusa confronto tra cattolici e islamici promosso dalla Cei
Alcuni partecipanti all’incontro di dialogo islamo-cattolico promosso dalla Cei a Lampedusa
C’è il luogo, Lampedusa, ultimo scoglio per tentare il salto dall’Africa in Europa. C’è la storia, quella di Giona, profeta nella Bibbia e nel Corano, salvato dal mare dal grande pesce mandato da Dio. Scenario e storia perfetti per il terzo incontro di dialogo islamo-cattolico promosso dall’Unedi, l’Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei. E il tema, “Sulla stessa barca”, dà le coordinate di questa tre giorni di incontri, iniziata venerdì e che si conclude oggi.
Nelle ore di navigazione da Trapani a Lampedusa cattolici e islamici, oltre 130 i partecipanti, si confrontano con franchezza in nove “laboratori” su temi delicati come “Pace, guerra e nonviolenza”, “Matrimoni tra cristiani e musulmani”, “Uomini e donne: la difficile gestione del genere”.
A Lampedusa, zattera di roccia di 20 chilometri quadrati più a sud di Malta e di Tunisi, sbarca la terza puntata di un percorso cominciato nel 2019 alla grande moschea di Roma su “Cittadinanza: diritti e doveri, diversità e uguaglianza”. Poi nel 2021 a Loppiano sull’ambiente, nello spirito del Documento di Abu Dhabi. Spiega don Giuliano Savina, direttore dell’Unedi: «Quest’anno il sottotitolo è “Viaggio verso una cittadinanza condivisa”: musulmani e cristiani sulla stessa barca avranno l’opportunità di compiere un passo significativo. A Lampedusa, dove papa Francesco ha aperto il suo pontificato, luogo di forte carica simbolica».
A dare il via ai lavori è il cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Cei, in collegamento con i partecipanti. «Crediamo ancora troppo poco – dice Zuppi – che quello che interessa all’altro, interessa anche a me. E che se l’altro sta male, anche io, che sono sulla stessa barca, sto male». Sulla stessa barca c’è anche il vescovo di Trapani. Monsignor Pietro Maria Fragnelli ricordando gli almeno 21mila morti, dal 2015 ad oggi, sulle rotte verso “Fortezza Europa”: «Questo viaggio vuole anche richiamare l’attenzione, come ha fatto il Papa, contro l’indifferenza nella quale è caduto il Mediterraneo. Un ponte di dialogo, non un fossato che porta morte».
«Abbiamo lasciato gli schemi classici del dialogo interreligioso – spiega Yassine Lafram, presidente dell’Unione delle comunità islamiche in Italia (Ucoii) – per scendere a Lampedusa, simbolo di speranza e disperazione, per ritrovare quel senso di umanità perduta». «La barca comune di papa Francesco – dice l’imam di Firenze, Izzedin Elzir – è la cittadinanza unica degli esseri umani. E come credenti dobbiamo essere di esempio, senza scaricare sempre le responsabilità sulla politica».
A Lampedusa l’incontro diventa itinerante. Prima tappa, la scultura della Porta d’Europa, con lettura dei testi di Giona. Poi la chiesa parrocchiale di San Gerlando: il crocifisso nell’abside è stato regalato dal Papa, che l’ha avuto un dono dal Messico. Una croce fatta con i remi usati dai migranti per arrivare sulle coste statunitensi. Come la piccola croce dell’arcivescovo di Agrigento, Alessandro Damiano, fatta col legno di un barcone: «Lampedusa ha molto da dire, ma soprattutto due parole: verità e giustizia. La verità è che non si può parlare di emergenza, la giustizia è quella di un’accoglienza che sia carica di umanità».
Il parroco di San Gerlando è don Carmelo Rizzo. Da una scatola tira fuori carte e libri increspati dal sole e dall’acqua: bibbie in arabo, documenti in tigrino, “sure” del Corano. «Dio, proteggi le persone su questa barca», ha scritto in arabo una mano. Forse una madre, infilando il biglietto in tasca al figlio. «L’accoglienza è un carattere di noi siciliani – dice – e se tensioni o strumentalizzazioni ci sono stati, oggi non ne registriamo. Basta che l’assistenza e i trasferimenti funzionino».
L’itinerario poi tocca il santuario della Madonna di Porto Salvo, al vallone Cala Madonna. Tappa conclusiva al cimitero di Lampedusa. Qui riposa, spesso senza nome, chi non ce l’ha fatta. Suore e ragazze velate, imam e sacerdoti, frati col saio e giovani barbuti, tutti portano una gerbera, fiore simbolo di vita e di amore.
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