Libro. Don Epicoco, lo scrittore amato dal Papa: la mansuetudine, stile del cristiano
Don Luigi Maria Epicoco
Guardare a Gesù e a chi con onestà cerca di seguirlo. Farne un punto di riferimento. Impegnarsi a diventarlo a propria volta per gli altri. La testimonianza cristiana è, anche, questo “gioco di specchi” interiore. Si tratta di coniugare correttamente il verbo essere al presente, senza distorsioni o ipocrisie, consapevoli che il fare ne è una conseguenza. Sono alcuni dei concetti guida attorno ai quali si articola la riflessione di don Luigi Maria Epicoco, nel libro Qualcuno a cui guardare. Per una spiritualità della testimonianza (Città Nuova, pagine 180, 12 euro). Si tratta del volume donato dal Papa il 21 dicembre scorso ai membri della Curia Romana ricevuti in udienza per gli auguri natalizi. Un gesto tanto inatteso quanto gradito. «Non me lo aspettavo assolutamente – spiega don Epicoco –. Stavo lavorando e il telefono ha cominciato a squillare. Cos’aveva fatto il Papa l’ho saputo così».
Il libro è dedicato alla testimonianza. Banalizzando si potrebbe dire che tutti quanti abbiamo bisogno di avere testimoni cui guardare e di esserlo a nostra volta...
Io credo che la vita la si apprenda con gli occhi. Perché le cose ci entrino dentro le dobbiamo vedere e solo quando quel che conta diventa esperienza rimane impressa. La testimonianza è un circuito, fa parte del nostro essere umani. Noi abbiamo bisogno di vedere la concretezza nella vita degli altri e gli altri a loro volta hanno bisogno di vedere in noi quello che diciamo a parole.
Nella parte finale del volume lei usa un’immagine molto significativa: la testimonianza, dice, è un Battesimo che funziona.
Non penso alla testimonianza come a un fattore morale, non è una categoria moralistica. Riguarda l’essere, non il fare. Una persona è testimone quando si riconcilia con il verbo essere, non semplicemente quando ristruttura il verbo fare. Il problema fondamentale della nostra società è la schizofrenia che ci porta a mettere in ordine le cose che facciamo mentre abbiamo problemi seri sul chi siamo. Il cristianesimo fa esattamente il contrario: rimette a posto il verbo essere, il fare è soltanto una conseguenza. Penso che questa sia anche la chiave di lettura più giusta, più ortodossa della famosa, abusata, consumata frase di sant’Agostino: ama e fai quello che vuoi.
Ma esiste una scuola per imparare ad essere testimoni?
Penso che si tratti di un’arte, non di una tecnica. La differenza è sostanziale. Nella tecnica ci sono delle regole precise, se tu ti attieni agli ingredienti giusti è sicuro che la torta esca buona. Nell’arte invece bisogna regolarsi di volta in volta. L’arte sta proprio nella capacità di saper dosare le cose, di capirle nel concreto. Quindi la testimonianza cambia a seconda di dove ci troviamo, di chi siamo, davanti a chi ci troviamo. È una sorta di sensibilità interiore, è capire qual è la cosa giusta in quel momento.
Lei dice che il cristianesimo è anche una questione di stile. E fa riferimento alla mansuetudine di Gesù.
A volte vedo nella cultura in generale, ma anche nella Chiesa, che per amore di verità o di una cosa che ci sta a cuore, di un bene, si pensa che ogni mezzo sia lecito. Non è così. Una cosa giusta può anche essere detta in modo sbagliato. Cristo ci insegna come il fine non giustifichi i mezzi ma li specifichi. Se il fine è buono anche il mezzo deve assolutamente esserlo. San Paolo ha questa preoccupazione sin dall’inizio, infatti dice ai cristiani delle prima ora: la vostra affabilità, la vostra amabilità sia nota a tutti. Che non significa sorrisini, non è il trionfo dei buoni sentimenti ma vuol dire contrapporre all’insegnamento del mondo secondo cui il male si sconfigge con il male, un’altra logica, quella del porgere l’altra guancia. La mansuetudine di Cristo può sembrare debolezza mentre in realtà per non rispondere alla violenza e al male si deve essere molto forti. La mansuetudine è la forma più alta di forza.
A proposito di santi, lei dice che sono unici nelle cose che fanno tutti.
La nostra tentazione è voler assomigliare sempre a qualcuno fino al punto di dimenticare noi stessi. I santi invece sono persone che hanno assunto la loro unicità come l’originalità più bella donata alla Chiesa. Solitamente non assomigliamo a nessuno ed è questo che li rende affascinanti.
Il libro ricorda figure che hanno dovuto superare resistenze pesanti all’interno della Chiesa, dentro il loro stesso mondo. Come san Pio da Pietrelcina o santa Teresa d’Avila. C’è poi la storia del santo curato d’Ars, la difficoltà di perdonarsi per aver fatto andare in guerra il fratello al suo posto, Fratello morto durante il conflitto.
Il curato d’Ars tira fuori un capolavoro, una meraviglia dalla sua vita solo perché si lascia perdonare in una cosa che la nostra coscienza non perdonerebbe mai: sapere che qualcuno è morto per colpa nostra. E cos’è la santità se non l’esperienza di sapersi amato nella propria miseria? Nella sua domanda c’è però un altro aspetto importante. Noi possiamo anche sopportare le avversità quando vengono da un nemico. Ma la cosa che ci fa stare più male è quando la sofferenza viene da chi dovrebbe esserci d’aiuto. Questo non deve farci diffidare di tutti ma capire che in ogni situazione della vita, anche la più rassicurante, può nascondersi una prova, che dobbiamo essere pronti ad affrontare.
Lei ha vissuto il dramma del terremoto dell’Aquila, che cosa le ha insegnato?
Per formazione sono un filosofo e la mia grande tentazione è quella di voler tenere sotto controllo la realtà con il pensiero, attraverso il ragionamento. Il terremoto mi ha tolto questa mania di onnipotenza. Credo che la più grande testimonianza che posso dare a partire dal dolore che ho vissuto è che dobbiamo permettere a Dio di metterci in discussione, di farci delle domande, senza paura della mancanza di risposte concettuali. Se lei mi chiede perché io sono vivo mentre altre 300 persone sono morte, non so rispondere. So però che il Signore mi chiede di prendere sul serio la realtà così come ce l’ho davanti. Questa, credo sia la cosa più interessante che normalmente viene dal dolore vissuto.
Torniamo alla testimonianza come Battesimo che funziona. Il Papa chiede spesso di ricordare la data in cui siamo stati battezzati.
Scherzando, qualche volta dico che se mai aprissero una causa di beatificazione su di noi non si domanderebbero se abbiamo fatto miracoli in vita, se abbiamo costruito ospedali o scuole ma se abbiamo usato in maniera eroica la fede, la speranza e la carità. Che sono i tre doni che riceviamo nel Battesimo. Quando una persona li prende sul serio non importa più né dove si trova, né quel che fa. Perché ciò che conta maggiormente è il vissuto nella fede, nella speranza e nella carità. Ed è una chiamata alla portata di tutti. Le cose che contano sono fatte di piccoli gesti.