Nell’anno giubilare della misericordia, la memoria del
dies natalis di Paolo VI – il 6 agosto 1978 – porta anche a riflettere sull’Anno Santo da lui voluto pochi anni prima della morte, per diversi storici cifra peculiare dell’ultimo scorcio del Pontefice che Francesco ha collocato tra i predecessori ispiratori del suo nuovo tempo di perdono. Non a caso lo ha citato anche nella
Misericordiae Vultus e all’apertura della Porta Santa in San Pietro, sottolineando come, alla conclusione del Vaticano II, Paolo VI avesse collocato l’insegnamento conciliare nel cono di luce del Samaritano. Se non vi è motivo per dubitare che questa parabola sia stata «il paradigma della spiritualità del Concilio», come Montini affermò all’ultima sessione del Vaticano II, il 7 dicembre 1965, è altrettanto vero che essa attraversa pure, come un filo rosso, gli Anni Santi successivi. Da quello dello stesso Paolo VI, nel ’75, sul rinnovamento e la riconciliazione – che restituì al Giubileo le radici bibliche di riscatto e giustizia – sino a quello di Francesco che invita tutti ad essere «misericordiosi come il Padre», nella certezza che non c’è esperienza cristiana senza misericordia, passando per quelli del 1983 e del 2000 di Giovanni Paolo II. Ma fermiamoci su Montini. Già il 21 novembre 1973, in un’udienza generale Paolo VI riflettendo sullo scopo sotteso ad esso – il rinnovamento della vita cristiana proclamato dal Concilio – si chiedeva: «Come essere veri cristiani, oggi, nella società che ci condiziona e ci assorbe?». E, ancora: «Può lo stile religioso, insegnatoci dalla Chiesa, sopravvivere nella vita moderna? », riconoscendo trattarsi di «un grande tema di quel travaglio critico e rinnovatore che noi vorremmo fosse l’Anno Santo». E l’anno dopo, il 22 giugno, riprendendo l’impegno di autoriforma osservava: «La Chiesa sente il bisogno di migliorare se stessa. […]. Ecco lo scopo e la finalità dell’Anno Santo!». Un’occasione dunque «per offrire alla Chiesa universale un motivo di più per rendersi maggiormente fedele alla sua vocazione e più credibile». Nei fatti, non senza il travaglio di una ricerca autentica, l’ultimo Paolo VI provava a rimodulare – consapevole di nuovi diffusi bisogni – il suo paradigma pastorale declinandolo dal 1975 alla morte nel segno del binomio “evangelizzazione e promozione umana”, a riconoscere che non si trattava più di cristianizzare il moderno, ma vivere il più possibile con coerenza il Vangelo della carità realizzando “la civiltà dell’amore”. Non si trattava di ingenuo utopismo, se «la Croce non solo fa parte, ma costituisce il centro del mistero d’amore», così l’11 febbraio 1976. Non si trattava di sentimentalismo dimentico della verità: «La sintesi fra verità e carità tocca aspetti della vita molto importanti, [...], i quali trovano nel Vangelo, e perciò in quella “civiltà dell’amore” che noi andiamo vagheggiando quale eredità dell’Anno Santo, la loro umile e trionfante soluzione», così la settimana dopo. Insomma, «la modernità cristiana non era più in una cristianità moderna ma in un abitare il moderno oltre ogni nostalgia o pretesa di cristianità» ha sintetizzato Fulvio de Giorgi nella sua biografia (Morcelliana), spiegando che da quel periodo la tattica diventava strategia (pedagogia cioè del fermento) e ciò che era strategia diventava tattica e stava nella capacità di laicità umana, come dimensione di tutta la Chiesa (dal laicato alle famiglie) «e come figura complessiva di Chiesa povera e dei poveri».Forse anche per questo l’esito dell’Anno Santo, fu positivo: almeno come tentativo di trasfigurazione della civiltà in un vissuto di carità. Di certo – e lo intuì Alphonse Dupront – fu una manifestazione di recupero per un cattolicesimo che già pareva secondo l’immagine bergogliana un «ospedale da campo» e provò che c’era spazio per una configurazione popolare e non solo elitaria per la Chiesa conciliare. E ciò confortò il Papa venuto da Brescia. Una gioia che si percepisce in due esortazioni apostoliche pubblicate in quell’Anno Santo:
Gaudete in Domino( sulla gioia dell’essere cristiani, uno scritto da riscoprire) ed
Evangelii nuntiandi( con il rimando all’ascolto dei testimoni più che dei maestri). Ma c’è un altro testo da ricordare. Quello del Natale ’75, quando Paolo VI disse che il Giubileo sarebbe stato ricordato per sempre come «un patto di religione» che «ha cercato di ricollegare, con esito positivo» la vita cosiddetta moderna e Dio, aggiungendo: «Ed è questo il secondo significato che per noi ha assunto l’Anno Santo: la fede è la vita». E così concludeva «La sapienza dell’amore fraterno […] esploderà con novella fecondità». Come oggi Francesco, Paolo VI confidava in questo primato. Quello dell’«amore generatore d’amore, l’amore dell’uomo per l’uomo», l’amore a Cristo «o Cristo scoperto nella sofferenza e nel bisogno di ogni nostro simile». Un testo a tratti venato persino di poesia. Come altri. Come quello del
Pensiero alla morte, arrivata per lui trentotto anni fa: «La Chiesa […] potrei dire che da sempre l’ho amata; e che per essa, non per altro, mi pare d’aver vissuto».