Chiesa

L'eredità. Don Mazzolari e la rivoluzione dei lavoratori cristiani

Francesco Riccardi martedì 20 giugno 2017

Don Primo Mazzolari a Roma

Per chi oggi volesse cercare notizie e interessarsi all’esperienza di vita di don Primo Mazzolari – sulla cui tomba papa Francesco si reca oggi – potrebbe essere facile cadere nell’errore di ridurre la sua figura al solo impegno sociale, pure fortissimo, mettendo in secondo piano l’esperienza di fede e l’azione pastorale come sacerdote e parroco. Si tratta in realtà di tre aspetti che non si possono disgiungere e che semmai discendono l’uno dall’altro, secondo una precisa gerarchia.

Le considerazioni di don Primo sul lavoro, i disoccupati, i salariati e gli sfruttati, infatti, non nascono da una speculazione filosofica o da una visione “politica”, ma dalla condivisione, dalla “fraternità” con i più deboli – «il mio prossimo» – e trovano la loro radice in una precisa visione teologica. Nel pensiero e nel cuore di don Mazzolari è questo attaccamento a Cristo e alla Sua capacità di fare nuove tutte le cose, che può e deve illuminare di una luce diversa il lavoro e la vita dell’uomo. Per comprenderlo basta rileggere parte di una sua omelia, pronunciata nel 1947 in occasione del Primo Maggio (altre, e più famose, ne seguiranno per questa festa cui teneva particolarmente).

«L’uomo vale perché lavora», diceva don Primo Mazzolari davanti a fedeli usciti provati dalla guerra e in un clima di grande sospetto reciproco tra la Chiesa, i partiti di sinistra e i movimenti dei lavoratori. «Ma se non abbiamo una ragione di lavorare, siccome il lavorare non è un “vizio di gola”, cioè una cosa piacevole, e sembrano assai più stimati coloro che non lavorano nei confronti di coloro che lavorano, questo nobilissimo impegno finisce per essere una stupidità (…) se non diamo un fondamento a questa esigenza da tutti proclamata. Che non può essere, come molti dicono, né il pane che si guadagna né il denaro che in qualche modo lo retribuisce, né il produrre. Un cavallo produce più dell’uomo, una macchina ancora di più. Sono termini di confronto che davvero avviliscono l’uomo, lo riducono a una merce. E come tale viene pagato: e chi guadagna di più par quasi che valga anche di più come uomo e chi ha denaro par quasi che abbia il diritto di comprare il lavoro degli altri e cavarne profitto. E sarà sempre il primato del denaro sul lavoro: e l’epoca del lavoro non comincia. (…) Lavorare per mangiare; mangiare per lavorare! Se il ciclo dell’uomo è chiuso tra questi due momenti, non val la pena di fare l’uomo».

Colpisce già in queste prime parole l’attualità del suo pensiero: il lavoro dà dignità all’uomo non per la retribuzione o il risultato, ma per l’operare in se stesso. Eppure neanche questo basta perché il “fare” ha bisogno di un fondamento e di una relazione. Diceva ancora don Mazzolari: «Non c’è pane che basti, non c’è denaro che paghi il lavoro dell’uomo, come non basta parlare di solidarietà, di benevolenza umana, di ragione sociale per dare un fondamento alla mia devozione verso gli altri». «Chi è il compagno? », ci chiede don Mazzolari. «È un mio eguale, ma se io non vedo qualche cosa di divino in lui, se non riconosco un suo valore eterno, chi può impedire al mio egoismo di attaccarlo sotto in mia vece e di farlo tirare come faccio tirare un cavallo per bere, una macchina? Lo sfruttatore, il negriero è dentro ognuno di noi, se non troviamo la forza di comprimerlo. La legge non basta, l’organizzazione sociale non basta…».

Quanti “negrieri” ancora vediamo all’opera nel mondo e nel nostro Paese che sfruttano il lavoro degli immigrati? Ma – senza andare tanto lontano – quanta è ancora la tentazione pure nelle nostre imprese di “mettere sotto” tanti giovani facendoli “tirare come cavalli” e retribuendoli molto al di sotto di un minimo decente? Quanto della “tentazione del negriero” è insita in ognuno di noi nei nostri rapporti di lavoro, sociali e commerciali? La risposta, per evitare questa tentazione e costruire un sistema di lavoro e di vita più giusto, sta in un’alleanza forte con Dio, in un cambiamento radicale di prospettiva, possibile solo alla luce dell’amore di Cristo. «Dio nel compagno lo fa mio fratello e allora il mio lavoro diventa un atto di religione: lavoro con Dio in un atto d’anima che abbraccia ogni creatura», predicava don Primo.

«Questa è la prima unità sindacale che va rispettata: l’unità tra Dio che lavora e l’uomo che lavora. Senza questa primordiale unità, il lavoratore è in tentazione di farsi valere con la forza e di sporcarsi le mani di sangue fraterno, come gli altri. Con mani sporche di sangue e con il cuore sporco d’odio non si fa la rivoluzione».

Una rivoluzione radicale, faticosa e dirompente assai più di quella politica, a quei tempi prospettata e temuta, interiore prima ancora che esteriore. E quella, la vera «rivoluzione la possono fare soltanto lavoratori cristiani, che credano nel valore divino della fatica umana, che Cristo ha segnato con il suo amore». Non è nulla di meno di questa “rivoluzione” in Cristo l’eredità e il mandato che il sacerdote don Primo Mazzolari ha lasciato a sindacalisti, imprenditori e a noi tutti lavoratori cristiani.