Il denaro prima della salute. La Oroya, dove si respira piombo
I monti intorno a La Oroya sono perennemente imbiancati. Non dalla neve, però. A rendere quasi candide le rocce sono i residui di polvere di piombo sputata per oltre 80 anni dalle mastodontiche ciminiere della “fonderia”. Così gli abitanti della città peruviana, arroccata a 3.700 metri di altitudine, chiamano il complesso minerario siderurgico Doe Run, del gruppo Usa Renco. Fino al 2013, la fabbrica è stata il motore economico della zona. E anche la principale responsabile del triste record di La Oroya, inserita dall’Istituto Goldsmith nella lista dei dieci luoghi più inquinati del pianeta. I neonati nascono già con “il piombo nel sangue” trasmesso dalle madri.
Ora, i vertici aziendali hanno dichiarato fallimento per non doversi adeguare alle nuove leggi ambientali approvate dopo anni di battaglie. Impossibile per la “fonderia” stare nei limiti di 20 microgrammi di diossido di zolfo per metro cubo al giorno, il massimo previsto dall’Organizzazione mondiale per la Sanità. Inutile pure l’innalzamento della soglia a 80 microgrammi, deciso dal governo con una norma ad hoc per la Doe Run. Quest’ultima ha fermato l’impianto e ha deciso di vendere. Di nuovo, l’esecutivo è corso in soccorso della società: per renderla “appetibile” sul mercato viene consentito a chi la acquisterà una proroga di 14 anni per rientrare negli standard richiesti. Nel frattempo, in base al decreto del 10 luglio, il complesso avrà una soglia di tolleranza la cui entità non è stata ancora resa nota. Nonostante le concessioni delle autorità, finora, però, i compratori latitano.E la Doe Run preme per avere ulteriore «flessibilità». Cioè per poter inquinare di più. In alternativa, l’impianto verrà dismesso e i 2.600 operai – che, al momento percepiscono il 40 per cento dello stipendio – saranno licenziati. Di fronte a questa eventualità, la città è spaccata. Tanti fra i lavoratori sostengono la richiesta dell’azienda. «Sono di fuori, solo il 2 per cento delle loro famiglie abita qui», afferma Juanita, residente di La Oroya e favorevole alla chiusura della «fabbrica dei veleni», come la definisce. «Tali contraddizioni sono il risultato della rottura dell’equilibrio tra lavoro, salute e ambiente. Nessun operaio deve essere messo di fronte alla scelta tra mantenere l’impiego o tutelare il proprio benessere», afferma monsignor Pedro Barreto, arcivescovo di Huancayo, dove si trova La Oroya. Il gesuita è da sempre in prima linea nella difesa dell’ambiente e dei diritti degli abitanti della cittadina. «La necessità della gente di lavorare dev’essere soddisfatta dalla Stato con un progetto di corto, medio e lungo termine. È fondamentale diversificare l’economia cittadina in modo da creare alternative», dice l’arcivescovo ad Avvenire. L’esatto contrario di quanto fatto finora: dal 1928, quando la fonderia ha iniziato l’attività, la vita economica della zona si è incentrata sullo sfruttamento selvaggio delle risorse minerarie per l’esportazione. A costo di intossicare l’altopiano e chi ci vive. «Lo sviluppo deve rispettare la vita e la salute degli esseri umani. Purtroppo lo Stato finora ha privilegiato la necessità di attrarre e proteggere gli investitori. A farne le spese sono i cittadini di La Oroya. Soprattutto quelli con meno risorse per curarsi », sottolinea. E conclude: «Papa Francesco ci esorta a non lasciarci governare dal denaro. Queste parole sono la chiave per risolvere la situazione a La Oroya».