Chiesa

La religiosa. Suor Smerilli: «La gratitudine è un dono sociale»

Cristina Uguccioni giovedì 29 agosto 2024

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La fecondità della dimensione sociale della gratitudine è al centro della riflessione che in questa conversazione offre suor Alessandra Smerilli, salesiana, docente di Economia politica alla Pontificia Facoltà di Scienze dell’educazione Auxilium e Segretario del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale.

Suor Alessandra Smerilli - Agenzia Romano Siciliani

La gratitudine ha dimensione sociale e fecondità sociale: come le descriverebbe?

Credo ci siano molte implicazioni pubbliche della gratitudine. Sottolineo un aspetto che è ogni giorno alla portata di tutti. Anzitutto le persone grate determinano una atmosfera, creano attorno a sé un senso di fiducia e di benessere grazie al quale è più facile che anche altri passino dal lamento e dalla sfiducia a un atteggiamento costruttivo. Questo perché le persone grate fanno sentire importante chi hanno di fronte, sono portate a sintonizzarsi sul meglio che è negli altri e a chiamarlo in gioco. La loro capacità di concentrarsi sulla crescita e la loro natura altruistica creano spazio per far fiorire gli altri. Sono persone umili, perché la gratitudine le porta a riconoscere il debito che le lega ai doni altrui. Ma “umile” rimanda all’humus, alla fertilità della terra che ogni ambiente umano può diventare. Chiaramente, “fertile” può farci pensare anche alle conseguenze economiche e sociali di una convivenza segnata da queste attenzioni, dal saper dire grazie. In effetti, se una comunità ha forte consapevolezza di ciò che uno deve all’altro e di come le sfide si vincono insieme, la sua crescita è più dinamica e felice rispetto alla situazione in cui si combatte tutti contro tutti.

In che modo la gratitudine può dare forma all’economia?

Già Adam Smith, padre fondatore della Scienza Economica, nel suo libro ‘La teoria dei sentimenti morali’ sostiene che la gratitudine giochi un ruolo vitale nel rendere il mondo un posto migliore in cui vivere. Benedetto XVI ha dedicato la Caritas in Veritate a mostrare come la gratuità, la logica del dono, non sia un di più, ma un aspetto fondante la dinamica economica. È un aspetto che le teorie economiche classiche hanno ampiamente sottovalutato e che la Chiesa ha contributo e sta contribuendo a portare in evidenza: protagonisti dell’economia sono gli esseri umani che, nonostante il peccato, non sono per natura irrimediabilmente egoisti e votati all’interesse proprio. I loro scambi, i loro progetti, le soluzioni che costruiscono per far fronte alla vita di ogni giorno, hanno in sé una continua vocazione al bene dell’incontro e della cooperazione. In questo ambito, la parola gratitudine può assumere la sfumatura della restituzione: a un territorio, alle generazioni successive, a coloro cui si deve la propria crescita. Gratitudine e restituzione implicano anche il superamento di quelle disuguaglianze che si devono alla storia e allo sfruttamento degli uni sugli altri. Noi dobbiamo ai poveri giustizia: questo è un aspetto drammaticamente attuale e poco riconosciuto della gratitudine. L’economia civile e altre ricerche – cattoliche e non – di nuovi modelli di sviluppo vorrebbero manifestare più chiaramente come uno sguardo grato alla vita debba generare un’economia del dono, mostrando che si tratta di un’economia non di decrescita, ma di una crescita a più alta intensità: più inclusiva, più ecologica, più integrale.

Una delle parole chiave di The Economy of Francesco (EoF) è proprio gratitudine: questo processo/movimento, nato cinque anni fa, sta cominciando ad avere rilevanza sul piano internazionale?

Sì, sta iniziando ad avere rilevanza internazionale, ma è ancora un movimento in fase di sviluppo e di crescita. La gratitudine è una delle parole chiave che guida i giovani coinvolti, i quali promuovono un’economia basata sulla condivisione, la solidarietà e il rispetto dell’ambiente. Molti giovani imprenditori, economisti e attivisti stanno aderendo a questo movimento e contribuendo a diffondere i suoi principi e valori in tutto il mondo. Tuttavia, c’è ancora molto lavoro da fare per trasformare realmente il sistema economico attuale e portare avanti un’economia più equa e sostenibile. La gratitudine è uno dei punti di forza dell’EoF che i giovani possono capitalizzare per raggiungere questo obiettivo.

Come accompagnare e sostenere le giovani generazioni alle prese, in Occidente, con un clima culturale dominato dall’individualismo e dall’imperativo dell’autosufficienza?

Le giovani generazioni stanno educando oggi quelle più adulte a uno sguardo meno individualistico di quello che ha trionfato negli scorsi decenni. Sono le vittime di una ubriacatura di cui, a volte in forme incerte e scomposte, altre volte in forme silenziose e sofferte, patiscono le conseguenze e desiderano il superamento. I giovani in Occidente sono pochi, poco ascoltati, spesso accusati da chi ha costruito attorno a loro un mondo respingente e giudicante. Il loro desiderio di cambiamento è radicato, profondo. La nostra responsabilità è quella di vedere nelle loro incertezze e nei loro bisogni una chiamata alla conversione, così da offrire testimonianze credibili e da sostenere con risorse materiali e spirituali i loro sogni.

In Occidente stiamo assistendo a una crescente burocratizzazione dei rapporti sociali e dunque anche dei rapporti di lavoro; una burocratizzazione che considera la gratitudine qualcosa di nobile ma di superfluo e ininfluente per far funzionare il mondo del lavoro. Come si corregge questa visione che marginalizza la gratitudine?

Riconoscenza ha la stessa radice di riconoscere: per dire grazie devo saper vedere il dono. In economia, e in particolare nella gestione delle organizzazioni, si è abituati a ragionare in termini di programmazione e controllo: si fissano gli obiettivi e si controlla che essi siano raggiunti. Poco spazio viene lasciato al dono, e quindi poco o nulla si fa per accorgersi di quel dono. Trovo interessante la tesi di Norbert Alter: egli sostiene che chi lavora all’interno delle organizzazioni ha bisogno di esprimersi come persona nel proprio lavoro, di personalizzarlo, di donarsi, di andare oltre la lettera del contratto. Le organizzazioni, che hanno tutto l’interesse a ottenere molto dai dipendenti, organizzano sistemi di controllo che non sanno riconoscere il dono, quindi non lo vedono. Per questo motivo non sono riconoscenti e non lo apprezzano, rischiano di far demotivare i lavoratori arrivando a impedire loro di donare. L’ingratitudine impedisce il dono, ecco la tesi di Alter. Volendo ottenere molto dai dipendenti, il management rinuncia alla risorsa più preziosa, la capacità di donare, che porta alla cooperazione e tiene alte le motivazioni. La gratitudine quindi, oltre che collante sociale, si può rivelare una forza enorme anche nella gestione delle organizzazioni: essa, però, non può essere imposta. Ha bisogno di occhi che sappiano riconoscere il dono, quel dono volontario e spontaneo che in qualche modo è anche la personalizzazione del lavoro che si fa. È anche questo il motivo per cui diciamo grazie al barista e non al distributore automatico del caffè: nel lavoro del barista c’è un’espressione di sé, unica e legata al suo modo di essere e di esprimersi. Ed è su questa linea che possiamo immaginare la gratitudine insieme a un buon contratto e non in sostituzione di esso. La riconoscenza verso il dono-gratuità non è in opposizione al denaro, ma le due cose possono stare insieme: anche un aumento di stipendio può essere una forma di gratitudine, se è conseguente al riconoscimento del dono.

A chi desidera rivolgere parole di ringraziamento?

Il primo pensiero va a coloro che mi hanno donato la vita e trasmesso una fede radicata nella semplicità della terra e della vita quotidiana. Si tratta dei miei genitori e di quelle persone a cui sono legate la mia infanzia e la mia adolescenza in Abruzzo. Desidero ringraziare anche chi, in oratorio, ha allargato la mia esperienza di fiducia e di casa, nell’amorevolezza del metodo educativo salesiano. Sono poi grata a coloro che mi hanno chiesto dei passi, a volte delle vere e proprie obbedienze, che hanno plasmato il cammino della mia vita adulta. La vita religiosa, in questo, credo sia per tutti una provocazione, l’invito a pensare che l’adulto non è principalmente chi si fa da sé, ma chi accoglie volentieri – creativamente e attivamente – anche le circostanze che non avrebbe pensato adatte a sé: da sola non avrei scelto di studiare Economia, ma poi mi sono accorta di quanto preziosa è stata l’intuizione delle mie formatrici. E da sola non avrei pensato alla Curia Romana come a un luogo di cura e di incontro.