Reportage. Viaggio negli Emirati Arabi, dove per la prima volta mette piede un Papa
Un chiosco che vende gadget relativi alla prossima visita del Papa ad Abu Dhabi In basso, una delle sale del «Louvre del deserto» (Ansa)
Sulla corniche di Abu Dhabi, il lungomare punteggiato di palme e localini in stile occidentale che si affaccia sulle acque lucenti del Golfo Persico, passeggiano tranquille le mamme coperte dall’abaya, l’abito tradizionale, circondate da bimbi vocianti. Sulla spiaggia i turisti prendono il sole. Ma qui è difficile incontrare i rappresentanti dell’88% degli abitanti della capitale emiratina: indiani, pakistani, filippini, africani... quei lavoratori stranieri attratti in massa dal miraggio di una società opulenta e in espansione, che tuttavia devono accettare infiniti sacrifici per ritagliarsi il loro piccolo posto al sole del benessere.
La città che papa Francesco si prepara a visitare, tra il 3 e il 5 febbraio, in un viaggio storico che vedrà per la prima volta un Pontefice mettere piede sul suolo torrido della Penisola arabica, è un ricettacolo di contraddizioni. Retta da una monarchia ereditaria che promuove un islam tollerante, cerca di aprirsi al mondo importando “pezzi di Occidente” – prima di tutto i grandi marchi del lusso e gli status symbol ma anche università, aziende, tecnologia, cultura – e tuttavia non si è ancora decisa a copiarne alcuni capisaldi indispensabili a uno sviluppo reale, a cominciare dalla democrazia, la libertà di espressione, il rispetto dei diritti a prescindere dalla cittadinanza. Un dettaglio chiave, visto che a potersi definire “cittadini”, da queste parti, sono solo gli esponenti della piccola minoranza autoctona, mentre la maggioranza – le masse di lavoratori reclusi nelle città ghetto in periferia e le collaboratrici domestiche, così come i professionisti e gli imprenditori – è destinata a rimanere per sempre straniera. Una regola ferrea, che nasconde il timore, comprensibile, di vedere erosi i propri privilegi e cannibalizzata un’identità fluida, alla ricerca di un nuovo equilibrio.
Abu Dhabi, così come la sorella Dubai, i più importanti dei sette Emirati (gli altri sono Ajman, Fujairah, Ras al-Khaima, Sharja e Umm al-Qaywayn) riunitisi in federazione all’inizio egli anni Settanta per il volere dell’amatissimo padre della patria shaykh Zayed al Nahyan, appare a volte irreale. I mega mall e i grattacieli che puntano ossessivamente a battere ogni record (l’affusolato Burj Khalifa, con i sui 828 metri, è il più alto al mondo) hanno rimpiazzato in quarant’anni le tende dei beduini e inferto uno scossone mortale all’antica cultura dei pescatori di perle. La tradizione, l’heritage tanto sbandierato, rischia di ridursi al folklore buono per i turisti – il cioccolato al latte di cammello o la falconeria – e alla conservazione di alcuni usi più o meno reazionari. La lunga tunica, nera per le donne e candida per gli uomini, o un modello familiare dai tratti ancora patriarcali.
Per il resto, il mix regna sovrano. Le pagine degli spettacoli dei quotidiani più diffusi riportano le ultime uscite cinematografiche di Hollywood e Bollywood nelle sale nazionali, mentre, nel periodo natalizio, centri commerciali o ristoranti non si fanno alcun problema ad allestire vistosi abeti addobbati. «Se ti comporti bene, vieni a tua volta rispettato», è il ritornello che mi sento ripetere da tanti espatriates che vivono nel Golfo da decenni. Uno spazio di libertà relativa, anche sul fronte della pratica religiosa, garantito a patto di accettare di essere cittadini di serie B. Di certo, mi fanno notare, il clima non è asfittico come nella vicina Arabia Saudita, “fratello maggiore” dello stesso blocco musulmano sunnita e alleato di ferro nella guerra sporca contro i ribelli houthi in Yemen.
Senza dubbio la società emiratina ha imboccato, da tanti punti di vista, la strada della modernità. E non solo per lo sviluppo economico innescato dalla scoperta di riserve massicce di idrocarburi. Le ragazze oggi studiano, spesso fino all’università, si sposano più tardi e lavorano. Soprattutto (così come gli uomini) nelle istituzioni governative e in generali pubbliche, che garantiscono opportunità vantaggiose e un ottimo reddito.
Gli impieghi più duri, in particolare nelle imprese edilizie e nell’estrazione del petrolio, sono appannaggio degli operai immigrati, i cui quartier generali sono gli impressionanti labour camp, le città ghetto che concentrano a volte decine di migliaia di uomini (l’accesso alle donne è proibito), trasportati al mattino presto sui cantieri in cui sgobbano fino a sera. Ma anche su questo fronte si notano importanti passi avanti. Gli insediamenti-pollaio di prefabbricati, dove gli operai erano stipati in stanze minuscole, non esistono più, sostituiti da caseggiati dignitosi spesso dotati di campi da calcio o da cricket. «Negli ultimi dieci anni la situazione è decisamente migliorata», conferma George Babu, imprenditore indiano che attraverso il vicariato dell’Arabia del Sud assiste legalmente i lavoratori nel caso di abusi. «Le violazioni, come il mancato pagamento di compensazioni nel caso di incidenti sul lavoro anche mortali, restano frequenti, ma la legislazione è progredita molto nella tutela dei diritti».
L’obiettivo dello sceicco Khalifa e del suo entourage è una società armoniosa, che riesca a restare indenne dalle turbolenze portate dai cambiamenti sociali e dalle tensioni regionali. In questo quadro, la promozione di un islam aperto e dialogante ha un posto chiave. La religione maggioritaria del Paese, il sunnismo, praticato da circa il 70% degli abitanti (con una quota di sciiti che si aggira intorno al 15% della popolazione), resta un aspetto importantissimo della cultura locale, celebrato in forma meravigliosa dalla grande moschea dedicata a shaykh Zayed in cui anche papa Francesco farà tappa per incontrare i membri del Muslim Council of Elders. Ma l’imperativo è instillare nella società l’idea che l’apertura ad altre religioni non rappresenti un tradimento della propria, per tagliare le gambe agli influssi del wahhabismo militante che infesta la regione. Per questo tre anni fa il governo ha istituito il ministero della Tolleranza, mentre il 2019 è stato proclamato “anno della tolleranza”.
Un tema che sta fortemente a cuore al principe ereditario Mohammed, da cui è partito l’invito al Papa. È per suo volere che, recentemente, la moschea che sorge proprio accanto alla sede del vicariato è stata dedicata a “Maria, madre di Gesù”. A fianco degli atti simbolici, resta il pugno di ferro contro l’estremismo. Nel 2015 è stata approvata una rigida legge anti-discriminazioni, mentre i sermoni del venerdì, in tutte le moschee del regno, sono controllati dalle autorità, per stroncare sul nascere qualunque tendenza fondamentalista che potrebbe mettere a rischio la fragile stabilità e la sicurezza locali.
Il modello Emirati, a conti fatti, resta una grande scommessa, che tuttavia vale la pena di essere giocata.