Il ricordo. Benedetto XVI e quella voce di Dio nelle nostre solitudini
Torino, papa Benedetto XVI in preghiera davanti alla Sindone il 2 maggio 2010
È un anno, che se ne è andato. Silenziosamente, in un’età molto avanzata. Avverto più netta ora la sua assenza. Mi è stato, come a milioni di altri, molto caro, Benedetto XVI. La sua faccia da asceta, gli occhi chiarissimi, nordici, l’accento marcatamente tedesco, potevano non rendere immediata l’affezione, a un italiano. Ho cominciato a leggere i suoi libri. Da allora ho seguito le Udienze. Ogni volta trovavo una parola capace di ricrearmi. Fra milioni di parole vuote, al mercoledì le miti parole di Benedetto, chiare come la spiegazione di un teorema eppure profondamente umane, e radicalmente cristiane. Pochi sanno dare vita attraverso le parole. Ratzinger era uno di quei pochi.
Solo una volta l’ho visto da vicino, quando incontrò in Vaticano la redazione di Avvenire. Ho guardato il suo viso già anziano, pallido. Mi ha sorriso, gli ho baciato la mano. Mi è venuto naturale, per quanta gratitudine provavo. Una mia figlia, allora bambina, ricorda ancora la carezza di Benedetto sui capelli.
Amavo il suo tornare audacemente sul tema della sofferenza e del dolore. Argomenti che tutti eludiamo. Lui non aveva timore di affrontarli. Sapeva che anche per un cristiano il momento della sfida vera è la perdita, il lutto, il decadimento della malattia e della vecchiaia. Fatti che ci lasciano spesso senza parole, e a volte anche senza speranza.
Ci fu un giorno, il 2 maggio 2010, che mi sembrò il culmine della sfida di Benedetto XVI alla sofferenza e alla morte. Ho avuto la fortuna di vedere con i miei occhi, per Avvenire, la mattina in cui si inginocchiò in meditazione davanti alla Sindone, nel Duomo di Torino. Noi giornalisti naturalmente lo vedemmo da lontano. Ma mi è indimenticabile e caro il lungo silenzio del Papa in ginocchio davanti al telo che porta i segni del martirio di Cristo. Di un innocente catturato, frustato, costretto a portare fino al Calvario la croce. E poi a quel legno inchiodato, dileggiato, «se sei Dio, salva te stesso»; e le vesti giocate a dadi dalla soldataglia. Sotto agli occhi di sua madre. E poi il Sepolcro, e la notte del Sabato.
«Dio – disse Benedetto – fattosi uomo, è arrivato fino al punto di entrare nella solitudine estrema e assoluta dell’uomo, dove non arriva alcun raggio d’amore, dove regna l’abbandono totale senza alcuna parola di conforto: “gli inferi”. (...) Ecco, proprio questo è accaduto nel Sabato Santo: nel regno della morte è risuonata la voce di Dio. È successo l’impensabile: che cioè l’Amore è penetrato “negli inferi”: anche nel buio estremo della solitudine umana più assoluta noi possiamo ascoltare una voce che ci chiama e trovare una mano che ci prende e ci conduce fuori».
Benedetto in ginocchio nella penombra del Duomo di Torino, indimenticabile. Mi torna in mente ogni volta che leggo di massacri, ferocia, bambini uccisi. Cerco di ricordarmi quel giorno: anche nel buio estremo è passato Cristo, è risuonata la sua voce. Quando poi Benedetto XVI si è dimesso, per me come per molti è stata un’ora drammatica. Non conoscevo le ragioni e nemmeno mi interessavano tanto: semplicemente, mi sono sentita abbandonata. Proprio da te, che ci insegnavi a sperare? Il fragore delle pale dell’elicottero che portava Benedetto via da Roma: che incredulità, che angoscia. Ammetto di avere provato del rancore per Ratzinger: come per un padre che abbandoni i suoi. Ho cercato di capire, mi sono detta che non ero in grado. Ci ho messo anni a perdonare – sì, ridicolo, a perdonare un Papa che mi aveva lasciato.
Ora, di undici anni più vecchia, comincio a capire il mancare delle forze, il senso di impotenza che forse Ratzinger ha avvertito, di fronte ai mali dentro e fuori della Chiesa. E torno a leggere le sue omelie e Udienze, adamantine, diritte al centro della domanda più vera: il dolore, la morte, perché, e in nome di chi non lasciarsene sommergere. Domanda così attuale, dall’Ucraina ai kibbutz del 7 ottobre, al massacro di Gaza. Mi pare che silenziosamente ci abituiamo, ci lasciamo vincere da tanto male. Bambini bruciati o lasciati morire di fame: che cosa resta da dire? Quella voce mite: «Nel regno della morte è risuonata la voce di Dio». Nella notte del Sabato, Cristo è passato laggiù nel fondo del buio, fra i dannati, i senza Dio, gli annientati. Lui è stato lì. Non fosse che per quella parola e per quel lungo abbandonato silenzio, a Benedetto sono per sempre grata.