Chiesa

Intervista. Parla il nuovo arcivescovo Gambelli: «Firenze riparta dalle periferie»

Giacomo Gambassi, inviato a Firenze sabato 20 aprile 2024

Il nuovo arcivescovo di Firenze Gherardo Gambelli

È un prete fiorentino il nuovo arcivescovo di Firenze. Papa Francesco ha nominato come successore del cardinale Giuseppe Betori don Gherardo Gambelli, il prete delle periferie: dall’Africa al carcere. Nato a Viareggio, 55 anni che compirà il 23 giugno, è parroco della Madonna della Tosse, cappellano del penitenziario di Sollicciano e vice-direttore spirituale del Seminario dal 2023 quando è rientrato nel capoluogo toscano dopo undici anni trascorsi in Ciad come missionario. L’annuncio ieri a mezzogiorno nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore, in contemporanea con la Sala Stampa vaticana. A fare da cornice alla comunicazione, nel transetto nord, la tribuna della Santa Croce dove è custodita la reliquia del sacro legno e dove si trova il polittico di Santa Reparata dipinto da Giotto. In prima fila anche il cardinale Ernest Simoni che dall’Albania si è ritirato lungo l’Arno. «La scelta del Papa – spiega Betori nel suo saluto – è caduta su un sacerdote che ben conosciamo e che ben conosce la nostra diocesi, di cui da figlio diventerà padre il giorno dell’ordinazione episcopale». Data di ordinazione e di inizio del ministero già fissata: il 24 giugno, solennità di san Giovanni Battista, patrono della città di Firenze. Betori, che ha compiuto 77 anni lo scorso febbraio, lascia per raggiunti limiti di età ma resta amministratore apostolico fino all’ingresso del nuovo arcivescovo. Il porporato d’origine umbra ha guidato la Chiesa fiorentina per quindici anni, dal 2008 quando è arrivato in terra toscana dopo essere stato segretario generale della Cei. Resterà a vivere a Firenze, dice durante il suo intervento. E saluterà la diocesi il 16 giugno. Nella comunicazione della nomina il nunzio apostolico in Italia, cardinale Emil Paul Tscherrig, gli esprime la «gratitudine per quanto svolto in questi anni a Firenze, per il costante impegno e la dedizione profusi ad immagine di Cristo, Buon Pastore, con un’attenzione particolare alle persone più fragili e bisognose». (G.G.)


«C’è bisogno di ripartire dalle periferie». E don Gherardo Gambelli le ha vissute sulla sua pelle: in Africa, come missionario per undici anni; dietro le sbarre del carcere dove è stato e continua a essere guida spirituale fra «chi ha sbagliato ma deve avere la possibilità di riscatto», tiene a far sapere. Un prete di frontiera e sulle frontiere del mondo e dell’umano. Un sacerdote dal tratto umile e dal sorriso gentile che papa Francesco ha scelto come nuovo arcivescovo di Firenze. Un parroco fiorentino per la Chiesa fiorentina, come non accadeva dall’episcopato di Silvano Piovanelli, il cardinale che aveva guidato l’arcidiocesi del capoluogo toscano dal 1983 al 2001. Proprio il pastore che ha ordinato prete Gambelli nel 1996. Aveva 27 anni. Oggi ne ha 54. E ne compirà 55 il 23 giugno, il giorno prima della sua ordinazione episcopale e dell’inizio del suo ministero fissato per la solennità di san Giovanni Battista, patrono della città di Firenze. «Sento di poter dire che la nomina di un prete di Firenze è un segno di stima e fiducia da parte di papa Francesco nei confronti della nostra diocesi. Una comunità ecclesiale che conosco e dove spero di condividere la ricchezza dell’esperienza missionaria», racconta ad Avvenire l’arcivescovo eletto. Con un orizzonte che già indica e che sembra essere il perno della sua futura agenda: «Occorre rispondere a ciò che il Papa ci chiede: la conversione missionaria della Chiesa. Perciò è necessaria una spinta verso le marginalità che ci aiuterà a riscoprire la bellezza del Vangelo».


E in una delle periferie dell’arcidiocesi di Firenze Gambelli matura la sua chiamata al sacerdozio: Castelfiorentino. In una famiglia dove il servizio ai più fragili segna il quotidiano. Con il padre (o meglio il “babbo”) che è stato anche presidente nazionale della Confederazione delle Misericordie d’Italia. La prossimità come chiave di lettura di una vocazione nata a partire dall’impegno nell’Azione Cattolica e poi della vita sacerdotale di don Gambelli che lo porta a essere vicario parrocchiale e poi parroco. Fino al 2011 quando chiede al cardinale Giuseppe Betori, suo arcivescovo, di essere inviato come “fidei donum” in Ciad. Prima nell’arcidiocesi della capitale, N’Djamena, in cui è parroco, docente nel Seminario nazionale, cappellano del carcere; poi a Mongo dove nel 2018 viene eretto dalla Santa Sede il vicariato apostolico e dove don Gherardo è chiamato ad accompagnare la nuova Chiesa locale che lo vedrà essere anche vicario delegato. Un anno fa il rientro a Firenze dove è parroco della Madonna della Tosse, cappellano del carcere di Sollicciano e vice-direttore spirituale del Seminario. Perché, come sottolinea Betori nel suo saluto, «la radice più profonda della sua figura sacerdotale sta nella Parola di Dio ascoltata e studiata con amore». Prete missionario, ma anche esperto di Sacra Scrittura approfondita a Gerusalemme fino al dottorato in teologia biblica.

Che cosa porta con sé degli anni in Africa?
Le Chiese giovani ci insegnano la capacità di vivere la fedeltà al Vangelo anche con numeri limitati. Penso, ad esempio, a quello dei preti che anche qui tocchiamo con mano. Serve un coinvolgimento sempre più diffuso dei laici che devono avere ruoli di responsabilità. L’esperienza in Ciad mi dice che le comunità sono in grado di farsi carico delle sfide che si presentano. Di fatto si tratta di tornare alla Chiesa delle origini: quella formata da piccole realtà che erano attente al contesto e operavano “gomito a gomito”.

La Chiesa nel sud del mondo è in crescita. Quella in Europa in affanno…
Guardiamo alla Francia. Nella notte di Pasqua sono stati battezzati dodicimila adulti. È un fatto che ci può sorprendere ma mostra anche come la pastorale vada reimpostata. Possiamo attrarre le donne e gli uomini del nostro tempo se sapremo annunciare il Vangelo con coraggio e con le opere più che con i discorsi.

Firenze, laboratorio di pace anche sui passi di Giorgio La Pira.
Davanti alla minaccia dell’espansione delle guerre, ci sentiamo più che mai interpellati a lavorare con tenacia per la pace che si costruisce in maniera artigianale nell’attenzione ai gesti quotidiani di perdono e riconciliazione. La Pira è stato un esempio. Anche perché era un uomo di preghiera, che metteva al centro la Parola di Dio. Ricordiamo il suo richiamo alla profezia di Isaia, all’urgenza di trasformare le spade in aratri e le lance in falci. Proprio l’ascolto della Parola ci esorta a non rassegnarci di fronte alle violenze e alle ingiustizie.

Nel suo messaggio alla diocesi ha ricordato l’impegno per il dialogo ecumenico e interreligioso.
Le fedi non sono mai strumento di antagonismo o di scontro: sono a servizio del bene e dell’umanità. Da parte mia ci sarà sempre la volontà di camminare insieme. E ci unisce la preghiera, a cominciare da quella per la pace.

Firenze è anche crocevia dell’incontro fra Chiesa e mondo politico?
C’è una tradizione che vorrei proseguire per l’edificazione di una società più giusta e solidale, nel rispetto della dignità di ogni persona, soprattutto dei più poveri ed esclusi. Si tratta di una collaborazione che deve declinarsi in premura verso quei luoghi liminali che non vanno dimenticati.

Compreso il carcere.
La Scrittura afferma: “Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere”. Da vescovo intendo essere accanto alle necessità delle sorelle e dei fratelli detenuti, come a quelle di tanti scartati dalla nostra società. Considero la pastorale carceraria una delle priorità. Se, da una parte, i reclusi sono chiamati a scontare la loro pena, dall’altro la società è tenuta ad assicurare loro percorsi di rieducazione. A tutti va garantita la possibilità di una vita nuova.

Come ha accolto la decisione del Papa?
Con uno “tsunami” di sentimenti, emozioni, pensieri. La Provvidenza ha voluto che l’annuncio cadesse nella settimana che precede la domenica del Buon Pastore. È lui il modello della scelta evangelizzatrice che ci spinge ad andare verso le periferie geografiche ed esistenziali nel nostro impegno missionario.