Coronavirus. Lo stop delle Messe a prescindere delude e ferisce le realtà cattoliche
Una parrocchia dove si annuncia la sospensione delle Messe
Delusione, amarezza, disappunto. Il “no” alle Messe a porte aperte che il premier Giuseppe Conte ha annunciato domenica sera è stato accolto come uno smacco nelle diocesi, nelle parrocchie, nelle associazioni e movimenti che da Nord a Sud marcano il volto dell’Italia. E le voci che si levano dal basso sono di energica critica al Governo e di pieno sostegno alla linea della Cei. Occorre «poter riprendere l’azione pastorale e l’attività di culto nel rispetto delle misure necessarie per il controllo del contagio, ma nella pienezza della propria autonomia», sottolineano in una nota i vescovi della Toscana. E, assieme ai pastori della regione, il cardinale arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori, denuncia in un videomessaggio: «Le ragioni economiche, culturali e sociali, in base alle quali vengono o verranno presto riaperti fabbriche, negozi e musei, parchi, ville e giardini pubblici, non possono avere una prevalenza rispetto all’esercizio della libertà religiosa, che è tra i principi fondamentali della Costituzione e definita dal Concordato tra Stato e Chiesa». L’arcivescovo di Siena-Colle di Val d’Elsa-Montalcino, Augusto Paolo Lojudice, aggiunge: «Mi auguro si possa trovare una soluzione. Del resto la questione è nata male con il primissimo Decreto dove si è parlato genericamente di “cerimonie”. Come se la vita della Chiesa fosse una cerimonia».
Anche i vescovi della Sicilia esprimono in modo unanime il loro rammarico. E, scrivono in una nota, «interpreti del sentimento del clero e dei fedeli che desiderano la ripresa graduale della vita liturgica», auspicano che «in tempi brevi il governo riavvii la trattativa» con la Cei perché «sembra non comprendersi che l’attività solidale delle organizzazioni cattoliche nasce da una fede che deve attingere a una sorgente così fondamentale come la vita sacramentale». Il vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero, definisce la decisione dell’Esecutivo una «una pagina buia» e la considera «inaccettabile» dal momento che all’origine «c’è la considerazione molto grave che l’aspetto religioso sia completamente accessorio da potere essere messo in coda a tutto».
L’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, chiarisce che «i sacramenti sono insostituibili» e, con la sua consueta ironia, punzecchia: «Certo, si può seguire la Messa in televisione ma nessuno si può scaldare con la foto di un caminetto. Mi adeguo alle regole ma non riesco a capire perché siano ancora vietate le celebrazioni. E anche questo accanirsi a dettagliare tutto è anche una mancanza di fiducia nei confronti dei cittadini». Il patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, osserva che «è in gioco la visione dell’uomo nella sua integralità, quindi anche nella sua dimensione spirituale, come anche la libertà di culto riconosciuta dalla Costituzione» e le liturgie “pubbliche” non sono un «privilegio». L’arcivescovo di Taranto, Filippo Santoro, si dice fiducioso di «una revisione», mentre il vescovo di Terni-Narni-Amelia, Giuseppe Piemontese, confida che il provvedimento gli ha procurato «grandissima amarezza per una limitazione che leggo come un abuso».
Il vescovo di Parma, Enrico Solmi, auspica «un ripensamento» ed evidenzia che «la Chiesa è ben cosciente del momento critico della pandemia e ha dato in questo settimane abbiamo dato prova di responsabilità e sacrificio». Poi dichiara: «Culto pubblico va braccetto con responsabilità e precisi protocolli: la Cei ne aveva presentati diversi ricevendo anche il plauso del governo e di alcuni ministri». Il vescovo di Piacenza-Bobbio, Gianni Ambrosio, propone che «almeno ripartano le Messe feriali», mentre l’arcivescovo di Modena-Nonantola, Erio Castellucci, ricorda in una lettera indirizzata ai sindaci del territorio che «la Chiesa non è una ong» e che c’è «la necessita di immaginare ed elaborare liberamente l’attività pastorale» che comporta «poter gradualmente tornare a celebrare con il popolo» ma anche interrogarsi «su tanti altri aspetti della vita di fede, di annuncio e catechesi, anch’esse provate da questa pandemia». In un videomessaggio il vescovo di Ascoli Piceno, Giovanni D’Ercole, parla di «doccia fredda», sostiene che «la Chiesa non è il luogo dei contagi» e poi usa parole molte dure che hanno suscitato reazioni di segno opposto. L’ordinario militare Santo Marcianò fa sapere che «senza l’Eucaristia non possiamo vivere» e «non si può “viralizzare”, ossia vivere online» il sacramento. L’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la vita, considera «sorprendente che riaprano tanti esercizi commerciali e non si riaprano le chiese per le liturgie almeno della domenica» e offre alcuni suggerimenti come quello di «togliere tutti i banchi in chiesa e mettere le sedie», il «numero chiuso di fedeli», la distribuzione della Comunione con «il sacerdote che passa», l’uso di «ostie grandi per evitare il contatto fra prete e fedele».
Mobilitato anche l’associazionismo cattolico. Il Movimento cristiano lavoratori parla di «posizione particolarmente grave» dell’Esecutivo che «comporta ripercussioni sul nostro regime democratico». L’Unione cristiana imprenditori dirigenti sottolinea che «vivere liberamente la propria fede è un diritto fondamentale» e «partecipare a una celebrazione non può essere considerata alla stregua di un qualsiasi incontro di persone». Il Centro Studi Livatino annuncia che presenterà ricorso al Tar contro il decreto. E una rete di associazioni non profit e di cristiani impegnati in politica rivolgono «un appello urgente» al governo «perché rispetti le garanzie costituzionali di libertà di culto palesemente violate» con un atto «arbitrario e ingiusto». Duro Massimo Gandolfini, organizzatore del Family Day: «Discriminatorio e irrazionale è il divieto di celebrare le Messe. A due mesi e mezzo dall'inizio della pandemia 400 esperti che compongono le task force non sono stati in grado di indicare semplici misure di distanziamento che permetterebbero di svolgere i riti in tutta sicurezza in luoghi aperti e salubri».