La testimonianza di monsignor D’Ercole. «Io vescovo, fra i monaci in Marocco»
Il monastero Nôtre Dame de l’Atlas
Nel buio della notte, il richiamo tintinnante di una campanella ricorda a tutti che sono le 3.45 e fra quindici minuti, alle quattro in punto, ci si ritrova in chiesa per l’Ufficio delle Letture secondo la tradizione monastica. Comincia così la giornata nel monastero Nôtre Dame de l’Atlas di trappisti di stretta osservanza, a Midelt, città di circa ottantamila abitanti, situata nell’est del Marocco, a milleseicento metri di altitudine, in un altipiano desertico abbracciato dalle montagne della cordigliera dell’Atlante. Sette gli appuntamenti di preghiera comunitaria durante il giorno, che ritmano e scandiscono la vita del monastero.
Si susseguono con un orario sempre uguale fino alle 20 quando, al termine della Compieta, il canto calmo e meditativo della Salve Regina in latino e subito dopo i rintocchi della campana per la recita dell’Angelus congedano i monaci che si ritirano nelle loro celle povere ed essenziali, senza nemmeno i riscaldamenti nonostante la rigidità dell’inverno. Niente radio, niente televisione, niente chiacchierate dopo cena: di giorno, ancor più di notte regna il silenzio, spazio vitale per la contemplazione e l’ascolto di Dio. Il monaco per definizione è «cercatore di Dio» e lo fa soprattutto conservando il cuore nel silenzio. Molto spesso in contemporanea al suono della campana del monastero si sente l’invito dei muezzin delle vicine moschee che esortano i credenti dell’islam alle rituali cinque preghiere quotidiane. Per un’interessante coincidenza i cristiani e i fedeli musulmani si ritrova- no così a incontrare Dio quasi alle stesse ore.
Si vive una coabitazione interreligiosa pacifica qui in Marocco, dove la presenza cristiana è «insignificante », come ama dire il cardinale Cristóbal López Romero, arcivescovo di Rabat, data la sua esiguità: 35mila cristiani su una popolazione di oltre 35 milioni di abitanti. Presenza però «significativa » perché comunità davvero cattolica cioè multietnica, formata soprattutto di uomini e giovani di tante nazionalità diverse. I marocchini, «cristiani di cuore», vivono la fede in Gesù Cristo di nascosto, e per questo è difficile quantificarne la consistenza numerica.
Ma da alcune fonti ben informate mi è stato detto che sono in crescita. A Midelt non c’è ormai più parrocchia da oltre venti anni, e la minuscola comunità cattolica s’incontra per la Messa domenicale e nelle feste nel monastero. I membri si contano nelle dita delle mani: cinque monaci di varie nazionalità, un eremita canadese, tre suore Francescane dell’Immacolata e, quando capita, qualche lavoratore straniero o visitatore di passaggio.
Tale minuto e variegato stuolo di credenti mostra la povertà e al tempo stesso la ricchezza di essere un piccolo seme in una terra di fede islamica, chiamato a testimoniare il Vangelo con il «linguaggio dell’amicizia». L’accesso al monastero è protetto giorno e notte dalla polizia, un gesto di attenzione da parte del governo marocchino verso la comunità monastica trasferitasi dall’Algeria nel 2000, essendo resasi impossibile la permanenza a Tibhirine dopo l’ eccidio nel 1996 di ben sette monaci, beatificati l’8 dicembre 2008 insieme ad altri religiosi, religiose e laici. In tutto 19 martiri, compreso il vescovo di Orano, Pierre Claverie. Qui vive attualmente l’unico superstite della Trappa di Tibhirine, padre Jean Pierre Shoumacher, novantasettenne, il quale ricorda spesso che insieme ai cristiani sono stati uccisi in Algeria diversi musulmani rimasti fedelmente accanto alla comunità cattolica. Per la gente di Midelt il monastero è zona «sacra», e i monaci godono di stima e simpatia perché in tanti modi testimoniano il carisma dell’accoglienza e del «dialogo dell’amicizia» con l’islam, eredità raccolta dalla comunità di Tibhirine.
Essi si definiscono una «comunità orante fra un popolo che prega» e, con uno stile di vita semplice e povero, intendono radicarsi come possibile a monaci di vita contemplativa nell’ambiente sociale che li circonda. Il loro desiderio di incrementare lo spirito di fraterna amicizia con l’islam emerge dai frequenti richiami nella preghiera comunitaria e da alcune iniziative che furono avviate da diversi decenni già a Tibhirine. Merita particolare attenzione il Ribât es Salam, che in italiano suona come il «Legame di pace ». È un gruppo misto di cristiani e musulmani, che s’incontrano due volte l’anno per condividere le loro esperienze di preghiera e per approfondire temi di spiritualità delle due fedi, presi di volta in volta dalla Bibbia e dal Corano. A dar vita al Ribât es Salam è stato padre Christian de Chergé, priore della comunità di Tibhirine, insieme all’allora padre Claude Rault, vescovo oggi del Sahara.
Per chi, come me, s’affaccia per la prima volta a queste realtà d’incontro con l’islam c’è tutto da scoprire e da capire. I monaci parlano della speranza presente nel dialogo fra cristiani e fedeli della religione islamica e il Ribât es Salam costituisce – essi sostengono – un vero «laboratorio» di rinnovamento spirituale in un clima di mutuo rispetto e reciproca amicizia, seguendo le orme di Charles de Foucauld. La pandemia del Covid-19 ha di certo rallentato questi incontri, come pure ha forzatamente ridotto l’accoglienza di persone e gruppi che il monastero è solito ospitare da Pasqua a novembre, offrendo a ciascuno l’opportunità di conoscere il mondo islamico e le potenzialità di dialogo. In monastero si sosta però soprattutto per un tempo di preghiera, di riflessione e di condivisione della vita monastica. Si viene qui anche per meglio conoscere i sette monaci martiri di Tibhirine grazie ad un memoriale recentemente costruito, che ne rievoca la storia e i tratti significativi della loro forte spiritualità carismatica.
È possibile inoltre familiarizzare con la storia dei pionieri dell’evangelizzazione in Marocco, tra i quali Elisabeth Lafourcade, medico francese che ha consumato la sua vita fra il popolo berbero, e padre Albert Peyriguère, fedele discepolo di Charles de Foucauld, le cui spoglie mortali riposano in una cappella accanto alla foresteria del monastero. Dopo le dimissioni da vescovo di Ascoli Piceno il 29 ottobre scorso, anche io ho scelto questo monastero per un lungo periodo di ricarica spirituale a contatto con monaci, che mi hanno accolto a braccia aperte e subito integrato nella comunità. «Non è possibile la pace senza l’adorazione». Dopo circa tre mesi di vita monastica ho compreso sempre più la ricchezza del silenzio come spazio dell’ascolto di Dio e l’urgenza di riproporre la preghiera contemplativa e il dialogo dell’amicizia come antidoto alla dispersione e alla crisi d’identità che mina la serenità e la speranza di tanti cristiani.