Chiesa

L'INTERVISTA. Il rabbino di Buenos Aires: «Ha costruito il ponte con noi ebrei»

Lucia Capuzzi sabato 16 marzo 2013
«Ve le abbiamo suonate, eh? Certo che voi “gallinas” (soprannome dei tifosi del famoso club River Plate, ndr) siete tosti, ma non come noi “cuervos” (soprannome della squadra San Lorenzo)». Ride ancora il rabbino Abraham Skorka mentre racconta gli inizi dell’amicizia con l’allora arcivescovo ausiliare di Buenos Aires, Jorge Bergoglio. Erano gli anni Novanta. E l’attuale rettore del Seminario rabbinico latinoamericano della capitale aveva cominciato a rappresentare la comunità ebraica alle tradizionali celebrazioni per le due feste nazionali argentine: il 25 maggio e il 9 luglio. Al margine delle cerimonie, “don Jorge” – come tutti lo chiamavano qui, sulle rive del Plata – «mi si avvicinava e buttava lì qualche battuta calcistica. Siamo entrambi molto tifosi, ma di due squadre rivali. E così ci mettevamo a scherzare, come fa qualunque argentino appassionato di pallone. Era la sua forma di rompere il protocollo. Per trovare un canale di comunicazione autentico, umano prima ancora che religioso, con me», afferma. Un legame destinato a cementarsi negli anni. E a gettare un ponte fondamentale tra la Chiesa cattolica e la più grande comunità ebraica dell’America Latina, a lungo vittima di una sorta di “discriminazione strisciante”. «In questo senso, l’azione di “Don Jorge” è stata superlativa». Superlativa. Ripete questo aggettivo tre volte il rabbino Skorka. «Attenzione, non lo dico per adularlo. La schiettezza reciproca è ciò che ha permesso alla nostra amicizia di crescere e rafforzarsi. Ci siamo sempre detti quello che pensavamo, senza filtri o remore. Del resto, il nuovo Papa è così: un uomo tutto d’un pezzo, sincero, franco, senza eufemismi. Lo vedrete, farà grandi cose…». Rabbino Skorka, ci faccia qualche esempio del rapporto di dialogo con la comunità ebraica costruito da Francesco quando era arcivescovo di Buenos Aires. L’allora cardinal Bergoglio ha visitato il nostro Tempio di calle Vidal due volte: nel 2004 e nel 2007. In entrambe le occasioni ci ha detto parole bellissime. Conservo i testi di quei discorsi autografati tra i miei ricordi più cari. Eppure più che con le parole la straordinaria vicinanza alla comunità si è manifestata con i gesti. Ci faceva sentire “fratelli maggiori nella fede…”. È stato lui – ne sono certo, anche se l’arcivescovo cercava sempre di minimizzare i suoi meriti – il mentore spirituale che ha ispirato la decisione della Pontificia Università Cattolica argentina a conferirmi il dottorato honoris causa nell’ottobre 2012. Non era mai accaduto prima che un ebreo, un rabbino, fosse insignito di un tale riconoscimento da parte del prestigioso ateneo. In questo modo ha segnato un prima e un dopo nei rapporti tra cattolici ed ebrei latinoamericani. Si ricorda quel giorno? Certo, il problema è che faccio fatica a descrivere con le parole quello che ho provato. È stato don Jorge a consegnarmelo. Mi ha abbracciato e mi ha detto: “Non sai da quanto aspettavo questo momento”. (Il rabbino ha un momento di commozione, ndr) Il suo abbraccio mi ha toccato il cuore. Voi avete anche scritto insieme un libro, “Sobre el Cielo y la Tierra” (Sul Cielo e la Terra), nel 2010, in cui dialogate insieme su uno spettro ampio di temi, da Dio, alla povertà, al capitalismo, alla morte… È nato da una serie di conversazioni che abbiamo avuto in questi anni. Ci incontravamo almeno due volte al mese e parlavamo della realtà e della religione. La comunità ebraica argentina è stata repressa durante l’ultima dittatura militare argentina. Qualche giornale ha addirittura accusato monsignor Bergoglio di aver “collaborato” con i miliari.Quando sono circolate le prime accuse, qualche anno fa, ho alzato il telefono e l’ho chiamato. Senza giri di parole, come siamo sempre stati fra noi, gli ho domandato: “Caro amico, che cos’è questa storia?”. Don Jorge mi ha risposto: “Dove sono le prove?” Ecco, dove sono le prove? Non ci sono. Perché non è vero. E lo dico come rappresentante di una comunità che è stata ferocemente colpita dai generali. Anzi, ci sono persone – e parlo di gente reale, con nomi e cognomi, anche se non è il caso di farli perché don Jorge ha sempre aiutato senza pubblicizzare i suoi gesti per cercare il plauso – che si sono salvate dalla tortura e dalla morte grazie a Francesco. Nel vostro libro c’è un capitolo dedicato a quegli anni bui... Sì, e lì don Jorge fustiga senza esitazione, e con una durezza inusuale per lui che ha fatto della misericordia il suo imperativo, quei sacerdoti che hanno giustificato la ferocia dei militari o che sono stati al fianco dei repressori. Li accusa di aver “svuotato di spiritualità la faccia della terra”. Avete mai parlato della possibilità che fosse eletto Papa? Abbiamo più volte parlato delle grandi sfide che attendono ogni Pontefice. Non sono cattolico. E ora non parlo nemmeno da credente, solo da uomo. Mi sento orgoglioso che lo abbiano scelto. Lui rappresenta tutti gli uomini e le donne che lottano per portare un po’ di luce in mezzo alle tenebre.