Dopo il viaggio Cei in Palestina. Bagnasco dal Papa con Gaza nel cuore
Giovedì porterà al Papa il saluto, l’affetto e la preghiera dei cattolici di Gaza. Insieme al racconto del loro amore per la Chiesa. Porterà anche la tristezza per aver visto con i propri occhi la devastazione di case, scuole, ospedali, e la speranza di un popolo che non ha perso la dignità. Porterà l’allegria e la vivacità degli studenti, il sorriso dei piccoli che giocano tra le macerie e gli occhi di Benedetta, una bimba di neanche due mesi, gravemente malata, che ha tenuto in braccio e che gli ha strappato un pezzo di cuore. In una parola il cardinale Angelo Bagnasco consegnerà a Francesco le "istantanee" della visita a Gaza e Sderot che, insieme con gli altri membri della presidenza della Cei, ha compiuto ieri e lunedì nella Striscia gravemente ferita dal recente conflitto israelo-palestinese e nella vicina città israeliana ripetutamente colpita dai razzi. "Istantanee" che l’arcivescovo di Genova e presidente della Cei racconta ad Avvenire in questa intervista di bilancio del viaggio, nella quale ricorda che la Chiesa italiana continuerà ad aiutare anche economicamente i cristiani del Medio Oriente; e auspica «un’alleanza di tutti i moderati della regione, per isolare gli estremisti» e creare le condizioni della pace.Eminenza, lunedì Gaza, ieri Sderot, in Israele. Che cosa ha annotato nel suo diario della visita?Ieri a Sderot abbiamo visitato i bunker, scavati nei giardini pubblici, dove i bambini possono andare a ripararsi quando scatta l’allarme. Quindi ci hanno portato a vedere un piccolo museo all’aperto, dove sono raccolti i pezzi dei missili che sono piovuti su questa città. Certo, pur nella diversità delle situazioni, ho pensato che la guerra crea ovunque disagio, paure e preoccupazione nella gente e pertanto è sempre una sconfitta per tutti. Mi auguro, dunque, che le parti possano al più presto, con un percorso virtuoso, trovare la via di un giusto accordo.
Sommando le esperienze vissute nei diversi momenti, che cosa riporta a casa da questa visita?Innanzitutto una grande tristezza per la distruzione di più di un terzo della città di Gaza. Distruzione di scuole, di ospedali, di abitazioni, oltre naturalmente ai morti e ai feriti. D’altra parte, però, ho ammirato la grande dignità della popolazione e una forte volontà di riprendere la vita nella sua normalità, per quanto è possibile. Insieme ai confratelli della Presidenza della Cei ho letto questa volontà nel volto e nella compostezza degli abitanti e, ancora di più, nella moltitudine straordinaria di bambini e di ragazzi che hanno ripreso ad andare a scuola e a giocare per strada, nell’allegria, nell’intelligenza e nella vivacità degli studenti che abbiamo incontrato nella scuola del Patriarcato. E questo è un segno di grande speranza per l’intera popolazione.C’è stato un momento che ricorda con particolare emozione?Lunedì sera, dopo aver celebrato la Messa nell’unica parrocchia cattolica di Gaza, siamo andati a visitare una dimora tenuta dalle suore di Madre Teresa e ricavata nei locali della canonica. Nella casa sono ospitati trenta bambini di pochi mesi, affidati alle religiose – definitivamente o temporaneamente – dai loro genitori, perché non ce la fanno ad allevarli. Molti dei piccoli sono malati, alcuni anche con gravi patologie, ma le suore li curano con dedizione materna veramente ammirevole. E sperano di poter ampliare la struttura, per poter arrivare ad accogliere almeno una cinquantina di bimbi, in quanto le richieste sono tante. I bambini, infatti, nascono in contesti di grandissimo disagio e le mamme e i papà non ce la fanno a tirarli su, dunque li ricoverano lì. Soprattutto mi ha commosso vedere una bambina di neanche due mesi, Benedetta, chiaramente malata in modo grave, che mi hanno dato in braccio. Quando è arrivata nella casa, era attaccata a un tubicino che attraverso il naso e la gola assicurava l’alimentazione, poiché non riuscivano a nutrirla normalmente. La cannula però le aveva causato alcune lesioni e le suore non solo gliel’hanno tolta, ma adesso la alimentano direttamente. Così, pur restando le sue condizioni molto gravi, la bimba vive in un contesto di amore materno che la parrocchia di Gaza ha dato a lei e agli altri bambini.La Cei ha già dimostrato in più forme la sua solidarietà verso la popolazione di questa zona. Quali ulteriori impegni concreti ha suggerito la visita?In effetti abbiamo visitato alcune opere già in atto, anche grazie al contributo della Chiesa italiana. Ad esempio nella scuola del Patriarcato abbiamo incontrato i ragazzi dell’ultima classe del liceo, che l’anno prossimo andranno all’università. In questa scuola, grazie all’aiuto della Cei, è stato costruito un salone per circa 500 persone che è molto utile per tutta una serie di attività: recite scolastiche, incontri, conferenze, convegni. Anche in futuro la Cei sosterrà i progetti che ci verranno presentati dal patriarca Twal, che ci ha espresso più volte la sua riconoscenza.La visita ha avuto anche un momento ecumenico?Sì. Dopo la sosta all’Ospedale Giordano, abbiamo incontrato anche il vescovo ortodosso della città di Gaza, Alexios, che ci ha accolto molto cordialmente, ci ha fatto visitare la sua Chiesa, ci ha fatto entrare nel sancta sanctorum e con il quale abbiamo condiviso un momento di preghiera. Un momento di grande cordialità che ha testimoniato il livello di buona collaborazione tra il patriarcato latino e la comunità ortodossa.La Presidenza della Cei ha incontrato anche le famiglie cristiane. Come vivono la loro fede in un mondo a stragrande maggioranza islamica?Dopo la Messa nella parrocchia di Gaza, c’è stato un momento di incontro con la comunità parrocchiale. In particolare mi hanno chiesto di portare il loro saluto, il loro affetto e la loro gratitudine al Santo Padre. E dato che lo potrò incontrare domani, quando sarò ricevuto in udienza, ho detto loro che certamente lo farò. Il piccolo gregge dei cattolici di Gaza (sono 1.500 fedeli su una popolazione di un milione e mezzo di abitanti) mi ha chiesto di riferire al Papa anche l’auspicio che egli, con la sua autorevolezza, mantenga viva all’interno della comunità internazionale l’attenzione su questa situazione molto grave. E poi ci hanno chiesto di pregare per loro. Ma anche io ho chiesto a loro di pregare per noi, perché l’esempio della loro testimonianza di fede e di attaccamento alla Chiesa ci sia di esempio. Sono una piccola comunità, ma hanno una grande responsabilità. Se ci pensiamo, si fa presto a ricostruire una città, ma ci vuole molto di più per ricostruire le persone segnate da tanto dolore, preoccupazione, paura. Ecco, la comunità cattolica ha il compito di non perdere e di non far perdere la speranza. Essi lo sanno e vogliono onorare in pieno questo compito.Sulla base di questa visita, è possibile ipotizzare una via per la pace?Torniamo dal viaggio con due convinzioni. La prima è la necessità di una grande alleanza di tutti i moderati della regione per isolare gli estremisti. Questa è una precondizione fondamentale, perché il pericolo dell’estremismo è sotto gli occhi di tutti e certamente non favorisce progetti di pace, ma fomenta semmai violenza, paura e odio. La seconda convinzione è di medio lungo periodo. In pratica cominciare ad attuare la soluzione auspicata da tutti che ogni popolo abbia una propria patria, una propria terra con confini certi, e così possa vivere in sicurezza e libertà, intessendo rapporti di collaborazione con i vicini. Non è affatto impossibile, specie se ci sarà la buona volontà da parte di tutti.Mercoledì 5 novembre acquista il tuo Avvenire anche on line