Ucraina. Grušas: «Non basta dire no alla guerra, si deve lavorare per la pace»
L’arcivescovo Gintaras Grušas
Sulla giacca del clergyman ha messo una spilla in cui due bandiere si intrecciano: sono quelle dell’Ucraina e della Lituania. Sorride l’arcivescovo Gintaras Grušas quando qualcuno gli fa notare che nel bavero ha condensato il suo viaggio. Il viaggio del pastore di Vilnius in una nazione sotto le bombe per abbracciarla assieme ai cattolici di tutta Europa. Lo incontriamo nell’episcopio di Leopoli, ultima tappa del suo “pellegrinaggio nella sofferenza”, dove è ospite dell’arcivescovo latino Mieczyslaw Mokrzycki.
«A nome degli episcopati dell’intero continente ho voluto esprimere in prima persona la vicinanza al popolo ucraino e ribadire il nostro concreto impegno per la pace», spiega il presidente del Ccee, sigla che sta per Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa. Cinque giorni di visita che hanno portato l’arcivescovo fino a Kiev, passando per il santuario mariano nazionale di Berdychiv. E poi anche in due città “martire” intorno alla capitale: Bucha e Irpin. «Ho incontrato tanto dolore – sottolinea –: nella gente che ha perso i familiari al fronte o perché uccisi dall’esercito russo oppure che ha visto radere al suolo la casa; nei soldati feriti; fra i nostri fedeli che sono in prima linea per aiutare i fratelli».
Una pausa. «Pensavamo che l’Europa non potesse rivivere atrocità simili dopo la seconda guerra mondiale. Invece tornano i crimini di guerra, i carri armati, le deportazioni. Avevamo detto: mai più. Però non abbiamo imparato la lezione. Ecco perché non basta ripetere che vogliamo la pace. Occorre lavorare per la pace. Tutti insieme».
A scandire la visita del presidente del Ccee è stata la preghiera. «Ho pregato con il popolo e per il popolo ucraino. L’ho detto anche al primo ministro Denys Shmyhal, durante il colloquio con lui a Kiev: la preghiera è il maggiore viatico che come Chiesa possiamo offrire». E nel Paese invaso dalle truppe di Mosca l’arcivescovo Grušas ha annunciato una giornata europea di preghiera per la pace. «Si terrà il 14 settembre, esaltazione della Santa Croce, festa particolarmente cara alle comunità cristiane di rito orientale. Così intendiamo richiamare l’unità dell’Europa. L’invito a vescovi e parrocchie è a proporre almeno un’ora di adorazione eucaristica». L’iniziativa segue la grande maratona orante della scorsa Quaresima che a turno ha coinvolto ogni Chiesa del continente.
Eccellenza, che cosa le lasciano le giornate in Ucraina?
Un immenso dolore. Il sangue degli ucraini grida giustizia. Dobbiamo fare tutto il possibile perché tacciano le armi al più presto. L’Europa non dimentichi tutto questo. Perché c’è il rischio che, quando una tragedia scompare dai tg o dalle prime pagine dei giornali, siamo tentati di rimuoverla. Non abituiamoci alla guerra, mi sento di affermare anche dopo essere stato a Bucha e Irpin, luoghi drammaticamente noti per i massacri compiti. Se i morti sono stati a centinaia lì, oggi resta una spettrale distruzione. Eppure sono tornati ad essere abitati. Nella parrocchia di Irpin, dopo la Divina Liturgia assieme ai residenti e ai volontari della Caritas, mi hanno commosso le parole di una donna che non ha più la casa a causa delle bombe. Mi ha detto: un edifico si può ricostruire sempre; più difficile risanare l’anima. La tribolazione di un’intera nazione deve essere per noi monito ad aprirci al prossimo più bisognoso e a rinnovare i nostri rapporti con gli altri.
Ha incontrato anche i militari.
Sì, quelli feriti che sono ricoverati in uno degli ospedali di Kiev. L’ho fatto anche come ordinario militare della Lituania per ringraziare i cappellani militari che svolgono un’egregia azione pastorale fra chi è chiamato al fronte. Uno dei soldati mi ha confidato di essere stato colpito cinque volte dall’esercito russo quando il suo battaglione è stato circondato. E ha perso l’uso delle gambe. Poi è stato portato in un campo di detenzione a Donetsk. E nella capitale ucraina è arrivato grazie a uno scambio di prigionieri.
Quale il ruolo della Chiesa?
La Chiesa è accanto al popolo. Anche in mezzo ai combattimenti i vescovi sono rimasti fra la gente. E poi la stanno soccorrendo, a partire da chi non ha più niente. Cito gli orfani di guerra che si stanno moltiplicando o le donne che ritrovano il marito dentro una bara. Come Conferenze episcopali d’Europa abbiamo testimoniato la nostra prossimità all’Ucraina aggredita sia con l’invio costante di aiuti umanitari, sia con l’accoglienza dei rifugiati. Ma c’è bisogno di continuare a mobilitarsi, perché il conflitto potrebbe durare ancora.
E le autorità politiche?
Il primo ministro ci ha ringraziato per ciò che facciamo. Tuttavia mi ha espresso la sua preoccupazione per l’inverno e ha definito urgente l’assistenza dell’Europa. Poi mi spiegato che verranno riaperte le scuole ma, in caso di allarme missilistico, le lezioni si terranno nei rifugi.
Nel santuario della Vergine di Berdychiv lei è giunto in occasione del pellegrinaggio nazionale annuale. Di solito raduna migliaia di persone. Con il divieto di assembramenti imposto dal conflitto la solennità è stata in sordina.
Abbiamo ripetuto l’atto di consacrazione dell’Ucraina a Maria. E ho voluto parlare di speranza prendendo spunto dalla Madonna sotto la croce. Come la Madre di Dio, anche il popolo ucraino è ai piedi della croce: versa lacrime e ha il cuore straziato. Però, come la Vergine, deve essere consapevole che la risurrezione ci sarà: in questo caso, la risurrezione dell’Ucraina.
Il Papa vorrebbe visitare l’Ucraina.
Tutti lo attendono, anche le autorità. E considerano l’evento necessario sia per rafforzare il morale, sia per sanare le ferite. Invece qui si dicono preoccupati per l’incontro fra il Pontefice e il patriarca di Mosca, Kirill, in Kazakistan che, sostengono, potrebbe essere strumentalizzato dal Cremlino.
Come amare il nemico quando lancia le bombe?
Amare il nemico significa anche pregare per lui e per la sua conversione. E mi fa piacere che l’arcivescovo maggiore di Kiev, il greco-cattolico Sviatoslav Shevchuk, abbia esortato più volte a non lasciarsi contaminare dall’odio.