Verso Bari 2020. Il grido dei cristiani in Turchia: più libertà
Le bandiere della Turchia davanti ai minareti delle moschee (foto Ap)
È caldo il vento che si alza dal Mediterraneo e si assapora camminando sul lungomare. E quasi si unisce ai venti di guerra che si percepiscono a Iskenderun. La città della Turchia meridionale che in italiano mutua il nome dal greco e diventa Alessandretta ha assistito quasi in prima linea al conflitto in Siria, il cui confine dista qualche decina di chilometri. E ora è come se giungesse da Est l’eco dell’attacco contro i curdi che Erdogan ha ordinato e che si è fermato dopo l’accordo sul cessate il fuoco. In questa città-porto si trova la sede del vastissimo vicariato apostolico di Anatolia che copre metà della Turchia e ha una superficie simile a quella dell’Italia benché le parrocchie non arrivino a dieci e i battezzati a duemila.
«Il Mediterraneo è stato il mare nostrum non solo per i cristiani ma anche per gli ebrei prima e i musulmani dopo. Quindi dovrebbe essere un luogo di incontro e dialogo. Ha generato tratti identitari comuni. Ma è stato e purtroppo è ancora bacino di guerre», spiega il vescovo Paolo Bizzeti, gesuita 72enne d’origine fiorentina che dal 2015, per volere di papa Francesco, è vicario apostolico di Anatolia. Sarà lui a rappresentare la Chiesa cattolica della Turchia nell’Incontro “Mediterraneo, frontiera di pace” promosso dalla Cei che porterà a Bari dal 19 al 23 febbraio i vescovi dei diciannove Paesi affacciati sul grande mare e che sarà concluso da Bergoglio. «È stato proprio Francesco a cogliere le problematiche comuni dell’intera area e a invitare noi pastori a riflettere, nella speranza che il Mediterraneo torni a essere un faro di fraternità e non un cimitero», sottolinea Bizzeti.
Il religioso siede sulla cattedra che è stata di Luigi Padovese, il vescovo lombardo assassinato nel 2010 dal suo autista al grido di Allahu Akbar («Allah è grande»). Un delitto su cui non è mai stata fatta piena luce. In una piccola teca della cappella nel palazzo vescovile sono conservate la stola, un messale, la stilografica e un paio di occhiali appartenuti al presule “martire”. «La sua vita e la sua morte, come quelle di don Andrea Santoro – ucciso nel 2006 – e di tanti altri cristiani emarginati, picchiati e abusati testimoniano quanto dice il salmista: “L’amore di Dio vale più della vita”», afferma Bizzeti.
Eccellenza, la Turchia è cerniera tra Oriente e Occidente. Eppure l’Occidente ha verso il Paese uno sguardo deformato da ragioni militari o economiche.
La posizione geografica della Turchia e la sua storia ne fanno uno snodo speciale. Non a caso qui si sono succedute e intrecciate molte civiltà, culture e religioni. Costantino aveva compreso che l’Impero romano, nel IV secolo, non poteva avere il centro a Roma e lo pose a Costantinopoli. La Turchia è un mosaico, spesso difficile da comprendere nella sua varietà anche da chi vi abita: paradossale ma vero. Perciò una visione nazionalista spinta e il tentativo di trovare un amalgama fondato sulla religione sono insufficienti per affrontare le questioni aperte. Anche l’approccio dettato dagli interessi di strategia militare e dall’appetibilità economica è destinato a naufragare.
Che cosa c’è di sbagliato?
Le potenze straniere – Usa e Europa – che in questi settant’anni hanno cercato di pilotare la politica del Paese in quanto appartenente alla Nato hanno fallito. E quanto accaduto recentemente lo mostra con chiarezza. Bisogna avere un approccio più disinteressato, favorendo il pluralismo già presente in Turchia. E chi sta al potere in Turchia deve fare ulteriori sforzi per garantire il pluralismo. Credo che l’attuale presidente ne sia convinto: l’ha affermato più volte. Però i funzionari dell’apparato burocratico e religioso sono rimasti indietro e promuovono un’identità turca basata sull’omogeneizzazione. In questo modo non c’è futuro per i giovani che anche grazie a Internet desiderano abbattere i muri storici. Si tratta di un cammino difficile. Ecco perché nella società si assiste a una spaccatura, come testimoniano le elezioni degli ultimi anni. Tutti adesso devono cercare qualcosa di nuovo e non arroccarsi nelle contrapposizioni.
In una nazione dove il 97% della popolazione è musulmano, i cristiani sono un minuscolo gregge. C’è preoccupazione per le minoranze?
Le minoranze sono di vario tipo. Anche i curdi (oltre quindici milioni) o gli aleviti (30% della popolazione) sono minoranze senza un vero riconoscimento giuridico. Per le comunità cristiane la situazione, sebbene migliore rispetto al passato, non è ancora soddisfacente: non c’è la libertà di aprire una scuola, un polo culturale, un centro sportivo, una cappella. I musulmani godono di questi diritti in Italia, perché i cristiani non devono poter fare altrettanto in Turchia? E un’ulteriore domanda ci interpella: come mai ci sono oltre mille aziende italiane in Turchia che non pretendono per i propri dipendenti piena libertà di espressione o di culto? Credo che in Italia e in Europa ci si riempia molto la bocca con termini come libertà, diritti e democrazia, ma poi conti solo il business: è una visione ristretta e senza futuro. Aggiungo che, secondo me, la Turchia non si sta reislamizzando: invece vedo molti segnali che vanno nella direzione dell’agnosticismo e dell’indifferenza, soprattutto tra i giovani. Certo, il ministero degli affari religiosi (Diyanet) ha aumentato la sua influenza a dismisura e sono state costruite diecimila moschee in dieci anni. Gli imam sono stipendiati e controllati accuratamente dal governo, così come i professori delle scuole e delle facoltà di teologia (anche all’estero, in quasi centodieci Paesi del mondo). Comunque la Turchia non ha mai avuto un’impostazione socio-politica “laica”. Il principio è scritto nella Costituzione, ma non si è concretizzato nemmeno ai tempi di Atatürk.
Il Paese ha accolto oltre tre milioni di profughi. Però l’Europa ha “pagato” la Turchia per tenerseli e fermarli.
Le migrazioni dipendono da situazioni insopportabili. Si preferisce correre il rischio di morire piuttosto che assistere continuamente ad atrocità: vale per gli afgani, gli iraniani, i pachistani, i siriani, gli iracheni. Molti profughi sono anche cristiani che non si lasciano ricattare dai violenti di turno in nome del Vangelo. Normalmente provengono da Stati con cui l’Occidente, la Russia e la Cina intrattengono importanti relazioni militari e commerciali. Quindi, o si stronca il commercio delle armi e si smette di alimentare il colonialismo economico oppure le migrazioni cresceranno inevitabilmente. L’Europa deve uscire dal letargo e affrontare il problema in modo diverso da quello dei muri o della “delega”: ha i mezzi per far leva su questi Paesi. Però tutto ciò ha un prezzo. Che cosa sta più a cuore al Vecchio Continente: il denaro o la libertà e lo sviluppo, unici fondamenti per garantire la sicurezza di tutti?
Nella terra dei Concili ecumenici, la comunità cattolica è oggi una Chiesa di stranieri. Nel senso che i rifugiati prevalgono sugli autoctoni.
La vita dei rifugiati cristiani è dura davvero. Non hanno luoghi dove ritrovarsi, dove pregare, dove fare catechismo. Non possono spostarsi liberamente perché la polizia spesso non dà loro il permesso. Sono tigri in gabbia, con poco futuro davanti. Una tragedia nemmeno immaginabile dai cristiani europei. Sarebbero invece una risorsa per la Chiesa locale e anche per l’Europa. Perché sono persone che hanno perso tutto ma sono rimasti fedeli a Cristo e sono portatori di antiche e significative tradizioni.
Il vescovo gesuita da Firenze al Medio Oriente
Dal 2015 il gesuita Paolo Bizzeti è vicario apostolico di Anatolia in Turchia. Lo ha nominato papa Francesco. Nato a Firenze nel 1947, è entrato nella Compagnia di Gesù nel 1966 ed è sacerdote dal 1975. Ha un baccalaureato in teologia. Specialista in questioni medio-orientali, ha diretto il Centro Antonianum per la formazione del laicato a Padova. È vescovo dal 2015.