Di santi giovani, e vicini ai giovani, ce sono stati diversi nei 2.000 anni di storia cristiana. Ma il rapporto che Giovanni Paolo II ha saputo instaurare con la generazione del suo tempo è del tutto speciale e in qualche modo paradigmatico. L’inventore (e ora anche patrono) delle Gmg ha infatti rivoluzionato l’approccio della Chiesa all’universo giovanile, in virtù di una metodologia sperimentata fin da quando era un semplice sacerdote, e poi affinata negli anni. Potremmo dire che questo speciale rapporto è racchiuso in quattro verbi – ascoltare, osare, accogliere ed esigere – che costituiscono altrettanti pilastri di quella metodologia.
Ascoltare, innanzitutto. «Nessuno ha inventato le Giornate mondiali dei giovani – disse al suo intervistatore nel libro
Varcare la soglia della speranza –. Furono proprio loro a crearle. Quelle Giornate, quegli incontri, divennero da allora un bisogno dei giovani di tutti i luoghi del mondo». Un’affermazione che dimostra come le Gmg nascano dall’ascolto dei veri bisogni giovanili e dalla capacità di intessere con loro un dialogo a tutto tondo, a volte anche scomodo, ma sempre sincero.
Osare. Quando per la prima volta Giovanni Paolo II chiamò i giovani a Roma (era la Domenica delle Palme dell’Anno Santo straordinario della Redenzione, 1984), alcuni cercarono di dissuaderlo. In effetti erano anni difficili. La generazione del ’68 aveva lasciato il campo allo yuppismo edonista degli anni ’80. E in molti ecclesiastici era diffusa una sorta di rassegnazione di fronte a un’apparente incomunicabilità. Il Papa del «non abbiate paura» non ebbe timore neanche in quel caso. E i fatti, come sappiamo, gli hanno dato ragione. La sua audacia nel portare Cristo ai giovani e i giovani a Cristo ha prodotto grandi risultati.
Accogliere. Il particolare carisma di Karol Wojtyla ha fatto il resto. Con i suoi giovani ha dialogato in tutti i modi, utilizzando ogni linguaggio possibile, anche quello dello scherzo sul proprio nome («Lolek non è serio, Giovanni Paolo II lo è troppo, chiamatemi Karol », Manila, 1995). Ma soprattutto ha mostrato il volto della paternità spirituale a una società che aveva smarrito l’identità dei padri. E ha accolto i giovani – ai quali aveva detto fin dall’inizio «Voi siete l’avvenire del mondo, la speranza della Chiesa! Voi siete la mia speranza» – tra le braccia materne della Chiesa.
Esigere. Karol Wojtyla è stato un amico esigente delle nuove generazioni. Resta emblematico quello che disse a Utrecht, in Olanda, il 13 maggio 1985: «Lasciate che vi parli francamente. Siete proprio sicuri che l’immagine che avete di Cristo corrisponda alla realtà? Il Vangelo ci mostra un Cristo esigente che vuole indissolubile il matrimonio, che condanna l’adulterio anche solo nel desiderio. In realtà Cristo non è stato indulgente in fatto di amore coniugale, di aborto, di relazioni sessuali, prima e fuori del matrimonio, di relazioni omosessuali». Parole che sembrano scritte ieri. Il Papa santo non ha fatto sconti sulla dottrina, non ha giocato al ribasso, anzi ha progressivamente alzato l’asticella, chiedendo ai giovani di vivere la vita cristiana secondo la misura alta della santità. Il suo testamento spirituale resta il mandato missionario di Roma 2000. «Vedo in voi le sentinelle del mattino, in quest’alba del terzo millennio. Nel nuovo secolo voi non vi presterete ad essere strumenti di violenza e distruzione; difenderete la pace, pagando di persona se necessario. Voi non vi rassegnerete a un mondo in cui altri esseri umani muoiono di fame, restano analfabeti, mancano di lavoro. Voi difenderete la vita in ogni momento del suo sviluppo terreno e vi sforzerete con ogni vostra energia di rendere questa terra sempre più abitabile per tutti ». È il
duc in altum applicato ai giovani. Una rotta sulla quale Papa Wojtyla continua ora a vegliare dal cielo.